Democrazia #22 – Planet Brain – The Maniacs – Astrid Hotel

È con profonda angoscia che apprendo la notizia della famigerata reunion degli 883. Dentro di me da tempo strisciava questo sospetto, o meglio presagio, di quella che potrebbe essere la funerea resurrezione (o la gioiosa morte) di un pezzo di musica italiana che bisognerebbe dimenticare a tutti i costi. Per poter dire basta ed andare avanti. Per smetterla di rimanere fedeli ad un passato che non ci rappresenta più e che ci rende irrimediabilmente vecchi e reazionari. O, se volete, per evitare per l’ennesima volta che Chomsky abbia ragione sulla pelle degli italiani con la sua regola sullo sdoganamento della mediocrità. No, io non amo gli 883, non amo il revival, non amo il revisionismo storico e non amo nemmeno vincere facile. L’idea criminale che ha generato la concatenazione degli eventi, la pubblicità smaliziata e l’onnipresenza che hanno portato a questo tragico (e possibile) finale le ho salutate sempre con un brivido dietro la schiena ed una toccata di palle, tanto per non farci mancare nulla. Alla fine è successo lo stesso, nonostante le invocazioni a Santa Cecilia e le dosi massicce di My Bloody Valentine ad esorcizzare l’eventuale epilogo. Non c’è stato nulla da fare. Siete proprio senza speranza. Siamo proprio senza speranza.

I primi di questa puntata sono i Planet Brain dalla provincia di Belluno. Quello che sto per recensirvi è con molta probabilità quello che sarà il vincitore del premio Democrazia 2012, perché è in assoluto il lavoro migliore che mi sia capitato sotto le mani quest’anno: di roba così fra le band “emergenti” (se proprio vogliamo usare l’odioso aggettivo) ce n’è veramente poca. Questo Forecasts EP è un lavoro che per qualità di produzione e di songwriting è superiore di tre spanne almeno alla media delle produzioni nazionali indipendenti. Un motivo potrebbe essere il fatto che i musicisti coinvolti in questo progetto non sono certo di primo pelo: ci troviamo di fronte a un autore che ha già militato nei Non Voglio Che Clara ed attualmente è in tour come chitarrista addizionale del Teatro degli Orrori. Quello che i Planet Brain presentano è il riuscitissimo connubio fra melodie vocali alla Jeff Buckley e un accompagnamento musicale emotivo, rombante e totale, nello stile dei Muse. Le canzoni seguono un percorso naturale e pieno, e si risolvono sempre in una maniera originale, denotando uno stile di scrittura che, se mi permettete l’espressione, è davvero di classe. Believe/novembre/slowly ne è un esempio lampante. È un piacere poter avere fra le mani una produzione come si deve, alzare il volume delle casse e sentire come ad ogni scatto dello stereo gli strumenti guadagnino aria ed ampiezza. Brani come Send me a souvenir non sentono il peso degli oltre 4 minuti nei quali i sempre mutevoli riff di chitarra si snodano fino a confluire nel brano successivo. E non ci si ferma mai. Superfluo dire che le parti di chitarra sono la vera chicca di questo cd: le sorprendenti soluzioni che riescono a trovare, fanno un buon 80% del sound della band. L’unica pecca? Di band così ce ne sono troppo poche in questo paese. I Planet Brain sono un gruppo che dovrebbe creare seguaci, e non dover subire le volubili opinioni di un pubblico dalla mentalità provinciale affamato dell’ennesima band pompata da un hype montato ad arte.

I secondi di oggi rappresentano invece per la rubrica stessa un “second coming”, e un esperimento empirico allo stesso tempo. Mi era già capitato di recensirti per Democrazia nel settembre 2010, e ritrovarmi quindi tra le mani questo Cattive Madri, secondo lavoro dei The Maniacs, mi ha incuriosito parecchio. Li ho lasciati con un album-tributo ai Foo Fighters, povero nella produzione, e con il cantato in inglese, e me li ritrovo adesso con un album dalla produzione roboante, pieno di riferimenti a molte altre band e con i testi in italiano. Posso dire che in due anni questi ragazzi hanno fatto un bel po’ di strada e sembrano aver messo in ordine le proprie idee, tirando fuori un lavoro che ha riferimenti che attingono a sonorità stoner e anche a band come i Deftones. Diciamo che per molti versi sono sulla strada per essere una versione de i Ministri un po’ più dura (o se preferite, come i Ministri prima di mettersi in mano ai soliti produttori ammazza-frequenze e alliscia-distorsioni delle major). Ne viene fuori un disco che all’ascolto è molto divertente (Se tutti urlano ne è un bell’esempio) e regge sulla durata, presentando oltretutto anche un appeal abbastanza “vendibile” (ma non troppo sputtanato) per un pubblico giovane, cosa che non è affatto un male.  L’unica pecca risiede nei testi, in generale un po’ troppo naive e generici: le band che funzionano da questo punto di vista riescono a farti “vedere” quello di cui parlano, e per immagini imprimono nell’ascoltatore i concetti che vogliono comunicare. Purtroppo in questo caso non si riesce a vedere quasi nulla. In ogni caso un ottimo passo avanti per una band che ha saputo rimettersi in carreggiata, mettendosi in discussione. Bravi!

Da Roma invece arrivano gli Astrid Hotel con il loro How is going to end?. In effetti non so dire “come finirà”, ma posso parlare di un buon inizio per una band capitolina in bilico fra sonorità shoegaze e post rock. L’EP inizia con una piccola presentazione: il brano dal titolo Astrid Hotel, soffice ed ispirato, che fa da preludio a canzoni dal minutaggio molto più importante e accompagnate da atmosfere dilatate con repentini cambi verso una certa durezza. Un po’ Slint, conditi da divagazioni psichedeliche ed anche alternative-americane, gli Astrid Hotel scommettono di rapire l’attenzione dell’ascoltatore ammaliandolo con digressioni vellutate e una solida parte ritmica che permette le divagazioni della voce e della chitarra. Ad essere sincero in alcuni episodi mi ricordano anche grandi band come i Catherine Wheel. Poche tracce per questo debutto, che però rimane un buon biglietto da visita. Un po’ schiacciata la produzione nei suoni: penso che francamente si sia un po’ esagerato con la compressione, ma nel complesso un lavoro accettabile sotto questo punto di vista. Una buona partenza, per vedere come andrà a finire.