The Tallest Man on Earth – There’s No Leaving Now

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L’uomo più alto della terra coi piedi tocca il fondale, immerso fino alle labbra osserva le foglie sfiorargli il viso e poggiarsi sul lago; la sua voce graffia la superficie e si riverbera lungo la riva. Non c’è alcuna ragione per muoversi, immobile scruta la pioggia gonfiare i fiumi e confluire nel mare. La luce del nord illumina lentamente le pianure e i giardini rustici dove le rose ingialliscono e l’estate resiste appesa a un filo di cotone. L’uomo più alto della terra appoggia le spalle sui rami dei pini. Con gli occhi ad alta quota il mondo scorre meno frenetico e insensato, ma occorre chinarsi per notare i dettagli e se il distacco concede serenità all’animo ugualmente priva l’esistenza di emozioni.  Kristian Mattson vive sospeso tra terra e cielo nei luoghi in cui il tempo scorre dilatato e scandisce ancora severamente le stagioni.

“There’s No Leaving Now” è il terzo capitolo di una storia dove uomo e natura sono protagonisti dello stesso ballo. Meno delicato di Bon Iver, compagno barba nei tour d’oltreoceano, distante dal barocchismo dei Fleet Foxes e dalla timidezza di Henson Keaton, The Tallest Man On Heart attinge dalla tradizione nord-americana più profonda del folk che strizza l’occhio al blues; doveroso l’accostamento a Bob Dylan, a cui lui stesso ha ammesso di ispirarsi, non solo per il modo di far vibrare le corde della chitarra con le dita, ma ancor più per la timbrica ruvida e decisa. Pianoforte, banjo e flauto arricchiscono il paesaggio sullo sfondo e irrobustiscono l’impalcatura fragile degli esordi, quasi tacciono nelle ballate malinconiche che intervallano l’album creando profondi tensioni emotive tra un brano e l’altro. “1904” e “Criminals” sono boccate d’ossigeno fresco in un disco che, com’è d’uso tra i suoi colleghi contemporanei, suona volutamente a bassa risoluzione; Kristian Mattson ha però bene in testa il suo cammino e immagino che tra qualche anno lo troveremo ancora lì… tra terra e cielo.