Ultrasuoni festival @ Roma

The Orb @ Ultrasuoni Festival – Circolo Degli Artisti Roma – 12/10/2012

report by Ida Stamile – photo by Claudia Picone

ATTITUDINE E VISUAL: Poca affluenza di pubblico per la prima serata dell’Ultrasuoni Festival e per la trance elettronica dei The Orb. Ad anticipare la performance degli storici manipolatori dell’ambient-house ci hanno pensato le oscurità cold wave minimali dei Der Noir, i “rituali pagani” di Valentina Fanigliulo, in arte Mushy, e il post-punk dei Confield, tutti costretti a suonare all’interno di una sala quasi deserta e ad imbastire tanti piccoli concerti semi-casalinghi per pochissimi presenti. La presenza di pubblico aumenta, non vertiginosamente, con l’arrivo sul palco dei The Orb, astronauti ormai attempati sin da subito pronti a cesellare le loro orbite elettroniche. Alex Paterson e Thomas Fehlmann, in arte The Orb, si muovono tra laptop, campionatori e drum machines, danzano scambiandosi sorrisi e sguardi vicendevoli, mentre giochi di luce e visual ipnotici, immersi tra spazi senza tempo e visioni africane, creano un’intensa e catartica atmosfera da club e la voce “presente-assente” di Lee Scratch Perry si dipana da un computer inseguendo marcate traiettorie dub.

AUDIO: Un muro di bassi dal calore dub che invade le orecchie, ben calibrati al resto delle sonorità più puramente elettroniche, house e d’ambiente.

SETLIST: Si va dal repertorio dub, dalle ultime collaborazioni con Lee Scratch Perry, Golden Clouds, Hold Me Upsetter, Soulman su tutte, per lambire anche territori house e techno. Non mancano poi le visionarie “torri sonore” del periodo U.F.Orb, come la titanica Towers of Dub.

MOMENTO MIGLIORE: Towers of Dub  e l’eco lontano della voce di Lee Scratch Perry che si incastona alle venature di elettronica e dub “astrale” dei The Orb.

LOCURA: Nessun caratteristico episodio di Locura.

PUBBLICO: Poco numeroso ma coinvolto e travolto dalla danza “cosmica” scaturita dalla musica. Un piccolo stuolo di fan del sound spaziale dei The Orb.

CONCLUSIONE: Tra ritmiche dilatate e sonorità più corpose, i The Orb disegnano sapientemente la loro astronave elettronica nella quale il sound tipicamente da club diviene un’isola dub nel deserto sonoro macchiato di ambient-house.

Ultrasuoni Festival – 13 Ottobre 2012

report by Sara Manini – photo by Emanuela Bonetti

La seconda e ultima serata del coraggioso Ultrasuoni Festival al Pigneto ha portato sui palchi delle quattro location designate un bel bouquet di artisti fra i quali emergono, per rilevanza storica, gli Echo&The Bunnymen. Della formazione originaria sono rimasti solo Ian McCulloch e il chitarrista Will Sergeant, ma il racconto della band new wave di Liverpool evidentemente non vuole ancora finire.

La programmazione multivenue ha imposto delle scelte, concedendomi di seguire neanche la metà dei gruppi di cui avrei voluto parlare, ma è la dura legge dei festival…e comunque sono riuscita a raggiungere i Brokenmen, gli Holograms e il malaugurato Gravenhurst, per concludere con gli Echo&The Bunnymen.

ATTITUDINE E VISUAL: data la natura piuttosto spartana del festival, nessun gruppo ha mostrato particolari installazioni sul palco;  giusto i Brokenmen, misteriosa band di Liverpool, hanno lasciato scorrere sullo sfondo immagini tratte da documentari vintage, in linea con il loro aspetto retrò con tanto di bretelle spavalde e un sound a metà tra funk-rock pesante e cabaret anni ’20. Dalla loro irruenza sono passata alla giovane apatia degli Holograms, ricchi di accozzaglie post-punk maturate nel grigiore di Stoccolma. A sentirli, viene naturale accostarli ai “cugini” Iceage; ma agli Holograms manca quell’urgenza quasi violenta che i ragazzi di Copenhagen offrono al pubblico. La successiva salita sul palco di Gravenhurst, ossia Nick Talbot da Bristol accompagnato da due valenti musiciste ha generato momenti di disagio: una valanga di problemi tecnici ha funestato l’esibizione, Nick giustamente si è imbestialito e dopo sette pezzi era già tutto finito. Sono corsa cercando consolazione dagli Echo&The Bunnymen, anche se chiaramente si è trattato di un concerto riesumativo per affezionati intriso di amarezza. McCulloch è salito sul palco con parka e occhiali da sole: da lontano l’effetto Liam Gallagher è stato inevitabile. Sergeant ha occupato un angolo buio e scrutato con cupezza gli astanti. In ogni caso, sono stati più aggressivi di quanto pensassi e la premura di Ian verso il pubblico si è espressa con un lancio di bottigliette d’acqua alle prime file, gesto sempre gradito.

AUDIO: aldilà dell’antica leggenda per cui al Circolo degli Artisti si sente bene solo vicino ai bagni, lo standard della “base” del festival e dell’Init va preso con filosofia, tanto più che se chi suona è bravo, basta quello. Disgrazia ha voluto che proprio l’esibizione di Gravenhurst, quella che avrebbe meritato più accuratezza da parte dei tecnici del suono per via dei toni celestiali della band, sia stata sconquassata prima da un problema di indirizzamento dei monitor, per cui gli sventurati hanno dovuto cantare senza sentirsi, come se temporaneamente sordi, poi è partito anche un microfono e la risoluzione dei danni ha occupato gran parte del tempo a disposizione del trio. Gravenhurst ha già pubblicato un comunicato a riguardo, in cui annuncia che tornerà a Roma, ma non all’Init.
La sorpresa è stata la nuova voce di McCulloch, più roca e grave degli inizi. Considerando la quantità di fumo che entra ed esce dai suoi polmoni anche durante i live, in effetti non è più di tanto una sorpresa.

SETLIST: Brokenmen e Holograms, avendo un repertorio limitato, non hanno dovuto pensare molto alla propria scaletta. Anche se la scelta dei secondi di chiudere con “Hidden Structure”, praticamente una rivisitazione di “Love Will Tear Us Apart”, fa riflettere sull’importanza che questo gruppo riserva al citazionismo, struttura per niente nascosta del loro operato. Gravenhurst ha avuto tempo di eseguire infastidito pochi dei miracoli sonori che impreziosiscono la sua discografia, tra cui “Circadian”, “Nicole” e “Black Holes In The Sand”, usando il delay come un’arma sul finale di quest’ultima.
Nella cornice antologica di questo concerto, gli Echo&The Bunnymen hanno realizzato una setlist corrispondente alle aspettative del pubblico, puntellata sui grandi successi del passato ma con qualche richiamo al presente. Anche le cover che sbocciano all’improvviso, non rompono propriamente gli schemi, dal momento che la band ha fatto da sempre largo uso di questo espediente. Tanto di guadagnato, in ogni caso, poiché contribuisce a formare quell’idea del ‘pop come grande famiglia’ che fa tanto bene al cuore. L’affacciarsi di “Sex Machine” in “Do It Clean”, o di “Roadhouse Blues” in “Villiers Street” come di “Walk On The Wild Side” in “Nothing Lasts Forever” scalda i presenti, generando quel senso di gratificazione di quando si riconosce una canzone fuori dal suo contesto.

PUBBLICO: Lo scenario immorale delle platee semi-deserte durante le esibizioni precedenti agli Echo era prevedibile, e sarebbe stata comunque accettabile una maggiore desertificazione in vista dell’annientamento dei soliti parlottatori impuniti. Sembrerebbe scontato tacere durante un concerto (soprattutto se non deflagrante) e ascoltare, invece per alcuni non è così, ci si trova sempre accanto qualcuno che trova più interessante parlare dello scaldabagno rotto, urlando per sovrastare la musica, giustamente.
Il pienone registrato dagli Echo era anch’esso prevedibile, insieme alla presenza del popolo dark romano, rinforzato tuttavia dalla categoria degli ‘insospettabili’: individui in tenuta da ufficio con un altissimo grado di affidabilità, che corrono al concerto del loro gruppo preferito di quando avevano vent’anni e non sapevano ancora cos’era l’Irpef.

MOMENTO MIGLIORE: “The Killing Moon” si è fatta aspettare, ma quando è arrivata il cambio di atmosfera è stato sensibile, nonostante si possa immaginare che Ian e soci comincino ad esserne nauseati.
Quasi commovente è stato vedere gli Holograms affrettarsi per non perdere un secondo dell’esibizione degli Echo: scene da PubblicitàProgresso sull’eredità culturale, insomma.

LOCURA: Senza dubbio, Gravenhurst costretto a sistemarsi monitor e microfoni da solo, scavalcando i tecnici dell’Init apparentemente sordi alle sue richieste.

CONCLUSIONI: Gli obiettivi di questo Ultrasuoni Festival sono senz’altro degni di lode e affascinanti, ma bisogna lavorarci. Innanzitutto, più che un unico festival, è apparso come un gemellaggio fra due micro-festival: uno svoltosi fra Init e Circolo, l’altro fra Alvarado Street e Hula Hoop, due nuclei non rapidamente congiungibili con una passeggiata al chiar di luna. Il problema della lontananza fisica è stato accentuato dai ritardi reiterati delle esibizioni al Circolo, che hanno sballato la tabella degli orari, dal momento che gli altri locali non si sono ri-sincronizzati. Per cui, ad esempio, pur essendo previsto che i Marcello e Il Mio Amico Tommaso avrebbero suonato dopo gli Echo, avendo questi ultimi terminato in ritardo, correre dopo la loro esibizione allo Hula Hoop per sentire almeno le note finali del giovane ensemble romano è stato inutile, dal momento che il palco era già stato smontato. In ogni caso, Roma (come qualsiasi altro posto nel mondo) ha bisogno di eventi del genere, e non deve essere l’assenza del dono dell’ubiquità nel genere umano a contrastarli.