Attitudine e visuals: Anche se la pioggia non arriverà, il cielo sopra Torino, visto dalle panchine dello sPAZIO211 pochi minuti prima del live dei Dead Skeletons, sembra presagir tempesta: l’elettricità nell’aria pare quella che lasciò intravedere ad un attonito Donnie Darko la fine del nostro Mondo. Protagonisti di uno degli eventi di punta dell’intera stagione del club barricadero, gli scheletri islandesi hanno il physique du role delle storiche formazioni psichedeliche dei Sixties, le pose allucinate dei Velvet Underground durante le performing art nella Factory e l’attitudine maudit dei primissimi The Doors. Le nubi cariche di feedback le portano loro, direttamente dalla terra dei Sigur Ros: entrambi “giocano” con la comunicazione verbale e la sua percezione, mescolando (talvolta in maniera un pò sommaria) simboli e idiomi di ogni provenienza geografico-religiosa i primi e, addirittura, creando una sorta di proprio “linguaggio panteista” i secondi; ma laddove quest’ultimi ci tendono la mano dai cerchi eterei del Paradiso, i Dead Skeletons ci traghettano senza posa nei gironi infernali della psichedelia.
Perno della performance è Nonni Dead, eccentrico leader della formazione d’Islanda: look da sciamano suburbano (con tanto di copricapo orientale, bigiotteria ossuta e pittura facciale), ulula litanie scimmiesche dietro al suo “pulpito” nel quale è incastonato un televisore che trasmette improbabili crocifissioni di colibrì, danze macabre messicane e maschere cinesi, intervallate dal mantra “Chi teme la morte, non gode della vita”. Lou Reed e Jim Morrison i numi tutelari del rituale.
Audio: Ancora una volta, grazie sPAZIO211. Grazie per ricordarmi che la psichedelia è questione di suono che entra dritto nell’esofago, grazie per aver fornito ai Dead Skeletons i volumi infernali che il loro sabba richiedeva, grazie per avermi fatto tornare a casa con la voglia di amputarmi le orecchie con un trinciapollo. I fischi che ospito nel mio cervello, si mescolano agli applausi che faccio al club con l’audio più dannatamente cazzuto in città.
Locura: Sul palco neanche l’ombra: le chiacchiere stanno a zero per Nonni Dead e soci, rintanati nel proprio allucinato delirio. Strappa un sorriso però, venire a sapere che una volta preso posto nel backstage di sPAZIO211, i Dead Skeletons invocano a gran richiesta una sola cosa: cartoni di latte, da scolare chissà con quale correzione. Poi, a fine live, tutto torna (complice l’Arancia Meccanica di Stanley Kubrick): i drughi islandesi si caricavano a sorsate di latte+?
Momento migliore: Probabilmente bis e tris (!), che sferzano una cinghiata decisiva al set, con una chiosa esoterica-industriale che diventa “tempesta perfetta”, sul fiume Stige.
Setlist: Nè più nè meno del monolitico esordio “Dead Magik”, marasma di riverberi nel quale diventa quasi superfluo scorgere le singole tracce, presto inevitabilmente trasportati dal Gange psichedelico. Per i feticisti, valga la scaletta recuperata ai piedi del palco.
Pubblico: Formazione che ha alimentato un piccolo “culto” (in tutti i sensi) sfornando un unico disco avvolto nel mistero quanto basta per incuriosire i disadattati (orfani) della Germania motori(k)zzata a kraut e le nuove leve psichedeliche cresciute all’ombra di Brian Jonestown Massacre e Black Angels, i Dead Skeletons hanno raccolto una nicchia abbastanza ferrata in materia di psych’n’roll, attenta a scovare il combo islandese abbastanza lontano dall’hype di incensati “colleghi” americani e dai circuiti (anche underground) di promozione. Età media piuttosto avanzata, ma d’altra parte si ha la sensazione che – salvo le dovute eccezioni – dai Sixties in poi la psichedelia non sia più entrata a pieno regime nelle maglie degli adolescenti. Certo, Ty Segall, Radio Moscow e Flaming Lips, potrebbero gridarci il contrario. Ossessivamente.
Conclusioni: Se vediamo il bicchiere mezzo vuoto è solo per via delle massicce aspettative nutrite in questi mesi: i Dead Skeletons affrescano Mondi “altri” (letteralmente, dato il cranio vagamente orientaleggiante impresso su tela da Nonni Dead ad inizio concerto), palesando ‘sostanza ed illusione’ della propria magia.
Da un lato, una volta esploso, il geyser psichedelico degli islandesi colpisce il bersaglio, trascinandoci nella pestilenziale traversata che dai vulcani del Grande Nord conduce alle alture orientali, all’interno di un tempio buddista, dall’altra forse “marciano” un pò troppo su un immaginario che ancora non è sostenuto che da un solo album, eccellente certo, ma più “radicale che completo”. Sciamani veri o santoni millantatori? Presto per dirlo: dato il ritardo col quale approdano in Italia e l’unicumdiscografico, speriamo non continuino a lavorare a ritmi millenari.