Attitudine e visuals: Da un concerto dei Mudhoney, artefici spirituali nonchè ultimi alfieri dello storico Seattle sound, nessuno si sarebbe aspettato un allestimento scenografico chissà quanto sontuoso e appariscente. Gli stessi membri della band si presentano sul palco in sordina, con un abbigliamento sobrio e spartano, se non proprio anonimo. Guy Maddison, il bassista, forte della sua camicetta sdrucita, ha l’aria d’un compassato padre di famiglia che s’appresta a strimpellare blues in una bettola di periferia; Steve Turner, il chitarrista, appare scarmigliato, ossuto, con degli occhialetti esili e malfermi: non diresti mai, incontrandolo per strada, che si tratti d’uno dei macina-riff più selvaggi e feroci della storia del rock. L’unico a lasciar trapelare dallo sguardo un baluginìo di follia anarchica è il carismatico cantante Mark Arm. Il concerto si può dividere idealmente in due parti: una prima metà in cui Arm canta accompagnandosi con la chitarra e una seconda in cui il frontman accantona lo strumento e sbizzarrisce tutto il suo incontenibile e delirante istrionismo. Se già nella prima oretta d’esibizione ci si contorce posseduti da un’estasi febbrilmente dionisiaca, è nella seconda che emerge la vera natura dei Mudhoney: delle indomabili bestie da palcoscenico. Mark Arm alterna movimenti flessuosi ed effeminati, da divo glam d’altri tempi, a scatti epilettici e smorfie da clown assatanato. Sulla dilatatissima jam psichedelica in coda a The Final Course, ciondola indolente e quasi privo di peso, per poi bloccarsi catatonico un paio d’interminabili minuti. Sarà la suggestione ipnotica del suo sguardo perverso e allucinato, saranno i giochi di luce che evidenziano i solchi profondissimi del suo viso di gomma, ma in quei momenti mi sembra d’ammirare l’incarnazione fantasmatica d’Iggy Pop. il pubblico è congelato in un’attesa spasmodica vibrante di tensione inesplosa, quando all’improvviso il nostro eroe si ridesta dalla paralisi, e ridesta la sua platea, con un urlo straziante che dà il via all’ennesimo baccanale demoniaco. A quel punto capisco che i Mudhoney, dall’alto dei loro 25 anni di carriera senza compromessi, non hanno bisogno d’orpelli ammiccanti e fighetti per accalappiare: Il rock’n’roll scorre impetuoso dentro di loro e deborda inarrestabile in chiunque li circondi.
Audio: L’acustica del Viper, almeno da sotto il palco, è perfetta per esaltare il sound abrasivo e ultradistorto dei Mudhoney. I volumi sono mostruosamente tellurici, li senti fibrillarti le viscere in combo con tutto l’alcol ingurgitato poco prima. Nemmeno gli assoli più fulminanti e i riff più muscolari riescono a soverchiare l’ugola al vetriolo dell’inesauribile Mark, dilaniante fino alla fine.
Setlist: Quasi due ore di concerto, una media di 3 minuti a canzone. Con premesse del genere, la setlist non poteva che rivelarsi corposa e articolatissima e pescare trasversalmente da tutta la discografia del gruppo, senza il rischio di scontentare i fan più intransigenti. L’apertura è affidata alle trascinanti Slipping Away e I Like it Small, i primi due brani del nuovissimo album Vanishing Point (eseguito quasi per intero). Una costellazione di teste unticce e lungocrinite comincia a smuoversi e frustare l’aria ritmicamente, ma è solo con You Got It (dallo storico esordio Superfuzz Bigmuff) che la partecipazione degli astanti deflagra incontrollabile, fino a culminare nell’assoluta perdizione della leggendaria Touch me i’m Sick, collocata strategicamente a metà scaletta. Tutta la parte centrale del concerto inanella hit devastanti senza un attimo di tregua: dal garage intriso di fuzz di Suck You Dry all’anthemica cavalcata a rotta di collo, tra Stooges e hard rock acido, di Get Into Yours. L’unico momento di (forzata) quiete lo si assapora quando Steve Turner interrompe un pezzo per segnalare ad uno dei tecnici che una corda della sua chitarra, a causa della troppa foga, si è spezzata. Il fatto che non s’avverta una stridente mancanza di continuità tra discografia vecchia e nuova la dice lunga sulla coerenza stilistica e sull’inossidabile longevità di questi capisaldi del grunge. Dopo circa un’ora, sulle ultime note di The Only Son Of the Widow From Nain, i membri del gruppo si congedano dietro le quinte, per poi ripresentarsi una decina di minuti dopo, ognuno con un calice di vino in mano, per il tour de force finale, introdotto da Into the Drink. Ben 3 le cover-tributo suonate inaspettatamente in questa fase conclusiva: The Money Will Roll Right In dei Fang (ripresa anche dai Nirvana), Fix Me (Black Flag) e Hate Police (Dicks), col suo beffardo incipit urlato a squarciagola “mommy, mommy, mommy, look at your son!”.
Locura: Concerto ricchissimo di gustosi momenti di locura, com’era lecito aspettarsi da un evento tanto incendiario e radicalmente punk. La mancanza di transenne sotto il palco richiama fin dall’inizio frotte di balordi e ubriaconi in vena di stage diving. I due buttafuori, dopo un tentativo fallimentare di redarguire i responsabili, vengono respinti indietro dall’immane fiumana di pogatori scalmanati e smettono di intervenire. A qualcuno viene la brillante idea di tuffarsi con tanto di rincorsa su un tizio che s’era lanciato dal palco subito prima, col risultato di portare circa una decina di persone al collasso simultaneo. Tra i tantissimi a cimentarsi con l’ameno rito, non mancano due esili fanciulle, subito cinte d’assedio dalle manine tentacolari d’una manica d’allupati smaniosi di palpare le loro grazie. Un ragazzone dall’aria skinhead, paonazzo e grondante di sudore, dopo aver aver berciato con piglio satanico l’intero testo di Here Comes Sickness, crolla letteralmente all’indietro sui miei piedi senza che nessuno lo avesse sfiorato con un dito. L’episodio clou, però, è quello che ha coinvolto i Mudhoney al completo, nel momento in cui Guy Maddison, accortosi d’uno striscione con la scritta “Stay grunge 4ever”, lo indica con un cenno agli altri membri della band, che gli sogghignano d’intesa, e sfodera un riso irriverente che pare riassumere tutto il compiacimento e il senso di superiorità derivato dall’aver visto nascere, evolvere e morire intorno a sè le più grandi formazioni grunge della storia.
Pubblico: I fan dei Mudhoney rispecchiano perfettamente un tipo di musica che, nella sua urgenza essenziale, riesce a mettere d’accordo tre generazioni d’appassionati di sonorità ruvide ed assordanti: i seguaci del garage, del punk e del grunge. Numerosissimi, quindi, i nostalgici vecchi e nuovi d’una Seattle idealizzata e ormai sepolta nel mito, tutti agghindati col completo di flanella d’ordinanza. Immancabili le cariatidi punk sopravvissute maldestramente all’ecatombe tossica degli anni ’80 e all’edulcorazione del movimento dei ’90. Abbastanza sparuta la percentuale di metallari e rocker “tradizionali”, se si eccettua per i fanatici dei sixties conciati in stile vintage. Altissima la “presenza” di sfattoni imbottiti di chissà quali mix psicotropi, alcuni dei quali (gli sfattoni, non i mix psicotropi) strabuzzano gli occhi in modo vistoso e innaturale mulinando tra la folla come spettri invasati. Curiosamente alta, infine, la partecipazione femminile, dovuta, con tutta probabilità, alla fama indiretta che i Mudhoney hanno riscosso attraverso gli omaggi e le dichiarazioni di stima dei Nirvana e di altre band grunge investite da uno strepitoso successo commerciale. La simbiosi tra pubblico e musica si mantiene altissima e costante per l’intera durata dello spettacolo, al punto che alla fine tutti coloro che hanno vissuto il concerto sotto il palco sembrano talmente esausti e frastornati da essere ridotti ad involucri privi di volontà in balia della folla scalpitante.
Conclusioni: Non ci avrei scommesso un penny, e di questo faccio pubblica ammenda, ma nel 2013, a distanza di quasi 20 anni dalla tragica dipartita di Kurt Cobain, i Mudhoney sono riusciti nella miracolosa impresa di resuscitare a Firenze, per una sola e indimenticabile notte, l’illusione della Seattle che fu.