Pearl Jam – Lightning Bolt

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I Pearl Jam degli anni zero hanno dosato in modo prevedibile e quadrato il tiro punk, le ballate che sanno di Into The Wild e qualche raro spunto più epico. Stavolta qualcosa è andato “storto” ed era l’ora che accadesse.

Non abbiamo tra le mani un capolavoro e in fondo non glielo chiedevamo neppure. Vs e Ten restano cosa altra nei suoni, nella scrittura, nella tensione e nelle teste loro e nostre di vent’anni fa. Però quando su My Father’s Son Jeff Ament disegna finalmente qualche traiettoria un po’ storta e Vedder gli va dietro  declamando strofe veloci, certo più spoken che cantate, lì è come girare le chiavi di casa nella serratura giusta. Bentornati. E bentornati anche quando Infallible si trascina alla maniera di Rats e di Tremor Christ, con un passo pesante e insieme sinuoso, capace poi di spiegare le ali, arrivati al chorus. Da quando con Jeff Ament a battere il ritmo c’è Matt Cameron (più efficace nei Soundgarden) i Pearl Jam sono quasi sempre andati a cercare la via più diritta, perdendo dolosamente il gusto di smarrirsi in quei battiti che rasentavano il tribale di Animal, In My Tree, Even Flow, W.M.A.

Il difetto di Lightning Bolt, oltre ai capelli corti di Vedder, sta semmai nel tirare il fiato troppo presto, lasciando Eddie lì in mezzo alla natura selvaggia a finire un’opera che all’inizio pareva molto più collettiva. Ma confrontiamolo con gli ultimi album, con il dichiarato ritorno a Vs (solo a parole) di Binaural e del disco con l’avocado, con l’aura un po’depressa e un po’ disforica di Riot Act e con la scorrevole leggerezza di Backspacer. E a sorpresa ci viene da credere che non abbiano fatto un disco così ispirato dai tempi di Yield.

[schema type=”review” name=”Pearl Jam – Lighting Bolt” author=”Marco Bachini” user_review=”4″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]