In tempi di peplum revival, lo scontro fra titani della stagione è quello che ha visto collidere a pochi mesi di distanza Hercules – La leggenda ha inizio di Renny Harlin (uscito in gennaio), protagonista Kellan Lutz, e Hercules – Il guerriero di Brett Ratner con Dwayne Johnson (in sala dal 13 agosto). Altri due prodotti dell’intrattenimento mainstream ascrivibili a un processo di revisionismo smitizzante (si pensi alla recente invasione di rivisitazioni fiabesce, da Biancaneve fino a Maleficent), stavolta incentrato sul celeberrimo forzuto della mitologia greco-romana. Da Harlin a Ratner, l’assunto di base sembra partire da una rilettura dal basso, terrena, precariamente umanizzata dello status ontologico del semidio Hercules. Il mito scalfibile, mortale e attualizzato come il corpo dell’eroe. Suscettibile di una messa alla prova, un’ideale fatica aggiuntiva da portare a termine per attestarne la valenza simbolica (il ritorno dall’esilio e la lotta contro il re Anfitrione nel primo caso, la battaglia contro il sovrano dei Traci Cotys nel secondo). Trattamento ed esiti delle due opere prendono però due strade diverse.
Harlin, tentando più una conferma che una riscrittura della leggenda (imposta fin dal titolo), in sintonia con l’action-adventure contemporaneo sceglie la formula dell’imitazione esibita. C’è una scena chiave dove Hercules sfida Anfitrione in duello pronunciando le identiche parole usate dal re nel prologo. «Imitazione, la più nobile forma di adulazione» risponde Anfitrione. Il déjà vù esplicita il senso dell’operazione di Harlin: la forma filmica che ne imita pedestremente un’altra, senza nascondersi, anzi dichiarandolo. Hercules – La leggenda ha inizio come clone spurio, figlio (il)legittimo de Il gladiatore (2000), in un prodotto che, come il suo protagonista, rivendica la paternità di modelli esterni ad ogni sequenza (Il gladiatore, come detto, ma anche l’estetica al ralenty di 300 e del serialSpartacus). Nulla di male. Soltanto che l’imitazione non si traduce mai in ibridazione che produce qualcosa di nuovo. E in definitiva finisce per smorzare il conflitto vulnerabilità umana-indistruttibilità divina. Hercules come ennesima variazione dello schiavo-legionario tradito in cerca di vendetta e giustizia nell’arena.
Non aiutano a riscattare il film evidenti richiami cristologici: l’annunciazione a Maria-Alcmena, Hercules prima ripudiato poi salvatore riconosciuto dal popolo, fustigato e “inchiodato” alle catene rivolto al Dio-padre («Io credo in te»). Proprio quest’ultima scena stabilisce un ulteriore scarto con il film di Ratner. Se per Harlin Hercules si libera invocando il padre, riconoscendo finalmente la discendenza divina in uno sguardo gettato al cielo, l’Hercules di Dwayne Johnson spezza la catene scegliendo di credere solo a se stesso. A una forza costitutiva quanto insondabile, incoraggiato da chi ugualmente crede in lui (Anfiarao e i mercenari) senza avere certezze del suo stato immortale. «Io sono Hercules»… e basta, verrebbe da dire. Non a caso nel film di Harlin, dopo l’indecidibilità iniziale, fanno capolino segni della scintilla divina (l’aquila dorata, i fulmini di Zeus sulla spada dell’eroe) completamente assenti in Hercules – Il guerriero. Qui, mai uno sguardo dall’alto a sorvegliare, nemmeno gli occhi evanescenti di Era (muta statua di pietra) onnipresenti nel kitsch in salsa medievale dell’Hercules Tv con Kevin Sorbo.
La leggenda ha inizio spezza solo apparentemente le rigide catene del mito, preoccupandosi presto di riagganciarle, imprigionandolo in uno schema tradizionale. E Hercules il guerriero a lasciarlo libero di (s)fuggire a un senso compiuto e definitivo. Indovinando l’idea di esplorare il dualismo del personaggio con leggerezza beffarda e divertita, talora cafona ma mai disonesta. Snaturandolo senza forzare i toni. Scegliendo di mantenerne l’ambiguità sulle origini fino in fondo, senza risolverla affatto, in un processo di ri-narrazione continua e slittamenti di prospettiva del racconto (il passaggio di consegne tra Iolao e Anfiarao dall’incipit al finale).
Ed è qui che il film di Ratner, pur in un impianto convenzionale, si mostra maggiormente riuscito. Nel presentare una riduzione in senso letterale, un mito in sottrazione, dosato, spartito e condiviso (la compagnia di mercenari). Un eroe orfano di una leggenda che chiede invano di essere verificata. Ma non serve accertare la leggenda (come nel film di Harlin). Basta quel tanto di verità dietro il mito. Umanissima odissea coi piedi piantati per terra (come le falangi istruite da Hercules). Di sangue, muscoli e denaro, carne pompata in bella vista e lacerazioni occultate, ma anche di lealtà, onore e compassione. Grazie soprattutto ai volti azzeccati per i comprimari (Hurt, Sewell, McShane) e a un Dwayne Johnson che definire introspettivo sarebbe inappropriato, ma che dopo qualche prova più sfumata (The Snitch, 2013, Pain & Gain, 2013) attenua la reputazione di colosso dalla recitazione d’argilla, strizzando l’occhio con (auto)ironia senza alzare borioso il sopracciglio.
Questo mito disinvolto e inconsapevole non è thesaurus di imprese celebrative da catalogare per forza, narrazione da sostanziare riannodando tracce esibite del divino in un’epica da bazaar ambulante, come fa il cantore Iolao imbonendo su scudi, elmi e corazze di Hercules. Ma diventa puro McGuffin per la destrutturazione dell’eroe e del bestiario mitologico di riferimento, che rilegge le false ombre dei centauri e di Cerbero in chiave psicanalitica, come paure collettive e traumi individuali innestati in un immaginario consolidato. Dove anche le dodici fatiche, rimandate ai titoli di coda, sono poca cosa dinnanzi al rimosso di Hercules, peraltro sbrigato grossolanamente.
Il merito del film di Ratner, lo spiega Autolico, sta proprio nel non raccontare tutto, omettendo dettagli, limando la grandeur. Altrimenti la battaglia non comincia. Nemici e spettatori battono spaventati in ritirata. La narrazione si spegne in partenza. In fondo, come illustra il finale aperto, anche chi si appresta a tramandare il mito dovrebbe essere morto.