Gli Espandibili

expendables-3

L’epiteto più o meno lusinghiero di “residuati bellici” affibbiato a Stallone e compagni si rivela più che mai azzeccato per I mercenari 3 di Patrick Hughes. Al Festival di Cannes sfilarono sui carri armati, e infatti la nuova incursione degli Expendables prosegue a tutto campo nel war movie d’azione grezzo e strabordante, ma fondamentalmente soggettivo, fedele all’autoriflessione di Sly sulle meccaniche del genere e relative icone. Stavolta, con meno ironia del solito, imballate nello scarto del lottare per una giusta (?) causa (il loro esserci, ancora, nonostante tutto) fra comparsate anacronistiche e armamentario teorico fallibile. Come il mitragliatore di Caesar/Crews, potente ma ingolfato dopo dieci secondi. Sulla resistenza disillusa e compiaciuta delle vecchie glorie dell’action ha già detto tutto il primo Expendables. I mercenari 2 rincarò la dose a suon di botti e parodia.

Ecco che questo terzo capitolo allora, più che insistere sull’ostinato quanto inevitabile ritorno sulle scene, si concentra sul versante opposto: quello del reducismo di chi è (momentaneamente) di(s)messo da un ruolo cucito come una seconda pelle, espropriato di identità e sostanza cinematografica. Che fra questi vi sia anche Jason Statham, non certo un dinosauro d’altri tempi, la dice lunga sulla precaria persistenza del mito dell’eroe muscolare e sulla sua complicata traduzione alle nuove leve, corpi consumati troppo in fretta dal cinema odierno, quindi assimilati altrettanto velocemente a un’epoca datata. “Non siamo il futuro, siamo il passato”: la sentenza di Sly riguarda Statham al pari di un veterano redivivo come Wesley Snipes, e il cortocircuito si fa sentire. Che poi i grandi vecchi tornino più cazzuti di prima è risaputo. Conta aver posto la questione, il dubbio sulla loro utilità, in attesa di un congedo al bar solamente rimandato. Con i sodali in stallo per una buona mezz’ora (si spiega anche così la tiepida accoglienza negli Usa), Stallone in versione reclutatore cerca nuovi “corpi speciali” da cui ricevere linfa e a cui trasmettere un’eredità impossibile, dall’Hercules in motocicletta Kellan Lutz al mago tecnologico Glen Powell, passando per la judoka Ronda Rousey.

Più che di Expendables, meglio parlare di Expandables. La saga dei mercenari si conferma prototipo di un cinema espansibile produttivamente (il set diviso fra Bulgaria e Romania) e, conclusa l’era dei guerrieri solitari indistruttibili, espandibile iconicamente in collisioni potenzialmente infinite, a dispetto della natura sacrificale e destrutturata dei singoli componenti. Uno squadrone d’assalto che spara e consuma corpi-cartucce (Chuck Norris, Van Damme) ma subito ne ricarica altri (Ford, Gibson, Snipes). Allargandosi fino a figure profane, come l’eroe romantico del felino e divertito Banderas anti-deperimento (“L’età è uno stato mentale”). Istinto mercenario innato (vedi Macine Mulino Bianco), vena poetica e loquacità irresistibile, entra in scena a suon di nacchere da mariachi per uscirne bollato del marchio degli Expendables. Sparito Mr. Church, spunta Harrison Ford stratega antiterrorismo alla Jack Ryan, che accantona presto protocollo e tribunali passando alla mano pesante della saga.

Con Statham, Lundgren e Couture gregari affidabili, il villain Mel Gibson e Doc Wesley Snipes sono le varianti, Stallone la garanzia. Al solito granitico e scattante ma più inquieto e crepuscolare, con il primissimo piano su uno sguardo smarrito e dolente al posto del consueto occhio della tigre. Accetta i colpi della senilità ma subito li restituisce, ritagliandosi un finale ultra-fisico su misura da incassatore inesauribile e combattente a mani nude, prima di una corsa contro il tempo che è ulteriore metafora di strenua sopravvivenza filmica. Ristabilendo, con battuta perentoria memore del giudice Dredd e del tenente Cobra («L’Aja sono io»), la legge dell’eterno ritorno del (suo) genere, allergico alle finezze tecnologiche come alle sottigliezze morali.