Se Il Signore del male (Prince of Darkness, 1987) non figura tra i film più celebri e celebrati di John Carpenter – almeno per i non iniziati al culto – è perché costituisce una delle sue opere più complesse ed ermetiche, sul piano interpretativo. Nonché una delle più ambivalenti, a livello del segno visivo e di messa in scena. Abbastanza lontana da furori rutilanti, compatta, sapientemente calibrata fra montaggi alternati e lente panoramiche. A partire dal fenomenale incipit che fissa all’istante il mood carpenteriano, cadenzando i titoli di testa sullo score ansiogeno e insinuante (opera dello stesso regista coadiuvato da Alan Howarth). A suggerire l’orrore in crescendo sottile, diluito a strappi improvvisi. Evocativo e metafisico. più che espressamente scolpito, eccezion fatta per la deriva effettistica collosa e purulenta dell’ultima parte.
Non si può che partire dal nucleo centrale, il ribollente artefatto (l’essenza del Male) custodito dall’occulta setta di vigilanti nei sotterranei di una chiesa. Scrigno installato nel magistero carpenteriano alla stregua del monolito kubrickiano (l’inazione del vecchio sacerdote sdraiato in coma, che stringe tra le mani la chiave d’accesso al cilindro, richiama il gesto dell’astronauta di 2001 sul letto di morte, che indicava il monolito-sorgente. Due morti simboliche che preludono ad altrettante rinascite). Dal quale mutua la natura pre-storica e millenaria, nonché lo status di epifania e di rottura (del senso prestabilito, delle coordinate conosciute). Un dispositivo d’innesco per speculazioni filosofiche molteplici, anche contradditorie, potenzialmente infinite – sperimentate da Carpenter con lo spettro della teoria quantistica.
Tra le piste possibili, ne scegliamo una fruttuosa. Il cilindro verdastro e vorticoso è innanzitutto un vero calderone cinematografico. Crogiolo stillante colmo di (anti)materia carpenteriana compressa per la detonazione definitiva. Uno scossone che spalanchi il varco sull’apocalisse del senso e le fauci dell’orrore ancestrale che di lì a poco inghiottiranno l’ignaro John Trent de Il Seme Della Follia. Ritorna la minaccia senza volto né corpo (per tutta la tesissima prima parte), l’assedio perenne di Distretto 13 (gli homeless catatonici guidati da Alice Cooper). L’attesa spasmodica, l’insostenibile atmosfera di isolamento, lo sfaldarsi progressivo del gruppo, il trapasso mutevole delle identità de La Cosa. Il sacrificio risolutivo dell’eroina femminile (la scienziata Catherine immolata come la combattiva Maggie di 1997 Fuga Da New York, dove solo il curato può credere ipocritamente a un intervento tardivo della grazia divina). A far da catalizzatore, la figura vicaria – stavolta più che mai – del veterano Donald Pleasence. Il suo Padre Loomis è custode vigile di eresie sepolte, rimosse e secretate – come nell’altra, laicissima resurrezione del Male dal Vangelo secondo Carpenter, ovviamente Halloween. Traghettatore di fede malferma sulle soglie dell’indicibile e dell’indecidibile assoluto, arcangelo spaurito (Loomis, non certo Carpenter) della blasfema annunciazione in arrivo.
Dall’incredibile e impensabile al rischio del non filmabile. La sfida di Carpenter, sconsacrata la teologia ufficiale, sconfessata in toto la parabola benevola del cristianesimo (la rivelazione del Dio alieno sceso in Terra per avvolgere l’umanità nelle tenebre), capovolte con audacia abissale le premesse della Storia, diventa dare rappresentazione visibile e percepita alla nuova thing ignota e imprevedibile. Ci riesce a metà, volutamente. Restituendo appunto lo sguardo sulla dimensione altra in modo parziale, incompleto. Gettato al di là e subito ritratto (si intravede un braccio nerastro, uno sfondo buio di densità amniotica), prima dell’oscuramento.
Anche la premonizione comune al gruppo di scienziati, lo sguardo del cervello, è una visione tagliata ai margini. Il sogno è segnale video disturbato, dozzinale sovrascrittura su nastro. Il film del futuro sbrigativamente “registrato sopra” quello del presente («something pre-recorded» tenta di definirlo il professor Birack, «a sort of remote camera view», precisa il protagonista Marsh). Un’immagine opaca, sgranata e dai contorni incerti che contiene, come il condensatore del Male, un’inquietante e turbinosa sovrimpressione di possibili sventure che non saranno sventate («You will not be saved» è il messaggio inequivocabile dell’anti-Cristo). Profezia sottratta al futuro e sovrapposta allo sguardo condiviso, ma anonimo e cupo, su un presente instabilmente incerto come una particella impazzita. Sporco, pullulante di vermi, ghettizzato, smantellato nelle sue fondamenta costitutive. Il proclama è sempre quello, il 1997 Now in esergo a Fuga da New York: l’accostamento stridente e paradossale del tempo lontano, le cui macerie viviamo già oggi.
Solo il cinefilo carpenteriano ha visto il futuro per davvero – quello della filmografia del regista– e sa che quello sguardo (dell’uomo, del cinema) è destinato a spegnersi nel collasso terminale della civiltà di Fuga da Los Angeles. Disattivato sotto l’occhio monco e fiammeggiante di Snake Plissken. Non resta che accendersi l’ultima sigaretta e «aspettare ancora un po’ e vedere che succede», secondo la chiusa di Kurt Russell ne La cosa. Ed è proprio il finale aperto, inquieto, irrisolto e indecidibile de Il Signore del Male l’ennesimo tocco di classe che raddoppia e consolida l’ambiguità funerea di The Thing. Geniale rivisitazione visiva del paradosso di Schrödinger direttamente citato. Non appena le dita di Marsh avanzano caute verso la superficie dello specchio, Carpenter inverte i ruoli e intrappola l’osservatore nella scatola buia dello schermo nero. Occultando la vista, infrangendo le possibilità di conoscenza discriminante, il beneficio della certezza dimostrativa. Come il gatto di Schrödinger è al tempo stesso vivo e morto, la mano protesa (dunque non ferma) tocca e non tocca, arretra e oltrepassa. Marsh e lo spettatore ristagnano in un limbo di materia e antimateria, simultaneamente dentro e fuori, al di qua e al di là, senza vie dischiuse per entrare e/o uscire dal cortocircuito.
Il Signore del male, negando l’antropocentrismo con lucido pessimismo e diabolica essenzialità, nella struttura destabilizzante e indecifrabile, prepara il terreno per tempi più maturi nel percorso dell’autore. Non c’è ancora un setting rifinito, una configurazione precisa per quell’altrove dimora del mostruoso arcaico – pronto a fagocitare il mondo e ipnotizzare le menti- che troverà fervida declinazione iconografica nel villaggio di Hobb’s End -indistintamente reale e immaginario, sempre nel senso di Schrödinger – ne Il Seme Della Follia. Altrove il cui punto terminale, la forma definitiva – come una Cosa che abbia completato il suo ciclo – si riscontra nella scissione identitaria di The Ward – Il reparto. Nel completo assorbimento dell’altro(ve) da parte del sé (in)cosciente. La proiezione allucinata – quella che John Trent vive in prima persona ma esternandola pur sempre a distanza, sullo schermo, seduto in sala, nel luogo deputato alla sospensione dell’incredulità – diviene corpo solido di cui rivestirsi, sguardo del doppio adottato per rifiutare di vedersi scoperti nel proprio trauma.
Non è un caso che il finale di The Ward replichi neanche troppo lontanamente quello di Prince of Darkness, dimostrando l’impressionante coerenza figurativa e tematica di Carpenter anche a distanza di anni e in un’opera indubbiamente minore. Proprio come Brian Marsh, anche la disturbata protagonista di The Ward, quando tutto sembra ormai risolto per il meglio, si avvicina ad uno specchio, dal quale irrompe all’improvviso la sua nemesi interiore che tenta di ghermirla (curioso come Fabrizio Liberti, nel Castoro su Carpenter, analizzando Prince of Darkness già prefiguri “il fronteggiamento tra il sé e il suo lato oscuro presenza in agguato dietro lo specchio”). Ma ancora una volta giunge fulmineo il cut interruptus di Carpenter, che abdica allo schermo nero. Di nuovo si palesano le due dimensioni – realtà e anti-mondo, razionalità e delirio allucinatorio, coscienza e inconscio – senza che si veda chi prenderà il sopravvento, da che parte (e da parte di chi) avverrà lo sfondamento decisivo.
Materia e anti-materia in Prince of Darkness. La persona e le sue ombre fantasmatiche in The Ward. Il Signore del male ha fatto proseliti, trovando i suoi discepoli nella schizofrenia delirante e nel villaggio dei dannati del contemporaneo. Quel liquido virale spruzzato in faccia alle vittime come un’eucaristia perversa (quasi l’acido letale di uno xenomorfo di Alien), quel feto alieno incubato nel corpo della vergine prescelta, quel seme del male originario strisciante in ogni opera di Carpenter – e citiamo non a caso il titolo italiano di Pro Life, il tv movie dove si narra di un altro aborto demoniaco – sembra aver completato la sua germinazione.