Cobain: Montage Of Heck

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Non leggere il mio diario quando non ci sono. Quando ti svegli, leggi pure il mio diario. Curiosa tra le mie cose e vedi di capire chi sono.

Kurt Cobain alla fidanzata Tracy Marander

Il montage (inglese) del titolo non è esattamente l’editing, ovvero il montaggio tradizionale. Nemmeno può indicare un rigoroso final cut biografico sulla vita di Kurt Cobain, perché mancherebbe – per definizione – il marchio di appropriazione e di approvazione del diretto interessato. Piuttosto il termine – appiccicato dallo stesso Cobain al personale pastiche musicale su cassetta – è qui da riferirsi a un campo semantico lontano anni luce dell’epopea del grunge. E che trova fondamento nel cinema sovietico di Ėjzenštejn e nelle teorie sul montaggio concettuale, che procede per giustapposizione alternata di brevissimi shots, concorrenti – anche con inserti antirealistici – alla costruzione di un significato metaforico, di una visione, di una filosofia.

Un assemblaggio creativo, multiplo, atomizzato, pulviscolare – eppur condensante un senso – che Brett Morgen sembra aver ben presente. Spalmando il caso Cobain su una progressione narrativa lineare ma ibrida e a triplo strato. In cui il variegato e traslucido livello visivo (estratti Tv d’archivio, riprese amatoriali, interviste) emerge incastonato fra gli interstizi creati con frizioni e mixaggio sovrapposto delle due piste formali, entrambe di impronta soggettiva: il mash-up sonoro, che (ri)annoda e fa stridere monologhi e confessioni registrate da Cobain, e il cut-up letterario, di matrice burroughsiana e grammatica grunge, che taglia e cuce sullo schermo il pensiero sconnesso – eppure, a suo modo, coerentemente premonitore, come ricorda Krist Novoselic – della produzione scritta del leader dei Nirvana. Alla ricerca di un hapax risolutivo e di un cuore rivelatore scartato dall’Heart-Shaped box che possano pesarne la fragilità dell’uomo e la sostanza dell’icona (e viceversa), racchiuderne l’essenza e postularne un lascito. Sedimentato sotto un tritacarne mediatico durato vent’anni, dietro la confezione plastificata del business underground che ne ha fatto un’action figure in jeans sdruciti e maglione di flanella.

Lo scollamento da quest’immagine, la destituzione del mito di massa Morgen la dispone nei primi minuti e con decisione, proprio davanti alla massa di pubblico in delirio del post-Nevermind (è il Live at Reading del ’92). Kurt sul palco, chino in carrozzella. Si alza traballante farfugliando al microfono, poi si lascia cadere all’indietro, schiantandosi al suolo a braccia aperte. Sembra un cazzeggio allucinato per i fan, ma è già un’abdicazione. Un flashforward funereo colto nel suo realizzarsi da(l) vivo. Il ritrarsi definitivo alla ritualità del darsi in pasto. Kurt mette al tempo stesso in scena se stesso, la parodia di se stesso e la sua fine. Tutti schiamazzano. Nessuno capisce. Al corpo esanime ripreso dall’alto mancano solo i contorni della sagoma tracciata col gesso, che non tarderà ad arrivare. Prima, però, Morgen fa marcia indietro. Riportandolo all’innocenza spensierata e generosa dell’infanzia, ai sorrisi domestici di compleanni e candeline spente. Rovistando alla ricerca di un indizio tra le chitarre giocattolo, per scoprirvi forse una sintomatica rosebud che possa illuminare le future macerie esistenziali del signor K.

Per poi proseguire campionando le vibrazioni intestine del panorama interiore di Kurt. Da intendersi alla lettera, con l’occhio/bisturi della m.d.p. che in rapidissimi frames di visionario montage ne radiografa organi, viscere e secrezioni gastriche, e in altri ne penetra il cervello per assistere alla fecondazione (in utero) del genio o all’incancrenirsi delle escrescenze autodistruttive. Il corpo di Cobain metabolizza la densità narrativa con il soliloquio e lo srotolamento di un tumultuoso flusso di coscienza. Morgen sente spesso di doverlo arginare, mitigando con il contrappunto visivo voci e parole che sarebbero pietre intagliate di senso già di per sé. Da qui lo stucchevole effetto storyboard animato-docufiction a cartoni che compare qua e là con intenti anche ironici (impiegato per l’adolescenza provinciale di Kurt e il maldestro tentativo di perdere la verginità), che rischia la caduta di tono in un episodio d’autore di Beavis & Butt-head, tra sigarette onnipresenti e il politicamente scorretto, con Kurt a guadagnarsi l’epiteto di “scopa-ritardate”.

Sul versante diaristico-epistolare, il cut-up è indeciso tra l’adesione alla grana sporca e all’inchiostro grezzo e il rendering calligrafico di cornicette dark e patine videoclippare tirate a lucido. Se tra schizzi, cancellature e spazi desolatamente vuoti la pagina-schermo intercetta i lampi di una (iper)sensibilità eccedente, dal termostato emotivo in perenne ebollizione, spesso diventa un prontuario didattico di slides à la carte. Con l’evidenza certificata e le prescrizioni inoppugnabili di un bugiardino medico (quello che impone il Ritalin al piccolo Cobain?) che non lascia carta bianca per le note a margine dello spettatore. A cui forse si chiede (indebitamente) nella fruizione la stessa cosa che i parenti di Cobain hanno (giustamente) raccomandato a Brett Morgen in sede produttiva: Caution! (Ri)maneggiare la materia con attenzione e rispetto, senza travisamenti. Ma anche, in tal modo, smorzando criticità comunque presenti. Con decaloghi dal feedback precompilato a cui mettere idealmente la spunta («Il punk rock è libertà», «Sono fin troppo cosciente della sincerità della mia voce», «Mi piace fare sesso con la gente »…) e classificazioni alla High Fidelity virate al nero («Abortisci Cristo», «Il governo ti odia»…). Lo schematismo di elenchi ammiccanti alla preparazione del filologo grunge. Il quale può ripassare la scaletta dei numi tutelari punk-rock di Cobain, come scandire la tracklist urlata dei vari nomi affibbiati alla band, che scorrono in countdown esigendo urla da stadio fino al tripudio (dei) Nirvana. Si viene inquadrati nella soggettiva di chi fa saltare il lucchetto dell’agenda segreta di un liceale problematico. E il paragone non sembri svilente. Anzi, è la voce dello stesso Cobain ad avvalorarlo, nell’apparentare – con orgoglio e suggestioni ancora acerbe – la sua rabbia anti-sistema al gesto di ribellione anarchica degli adolescenti disagiati del film Over the Edge (Jonathan Kaplan, 1979).

Sono questi segnali minimi, insieme alla genuinità degli aneddoti – più delle risapute e non necessarie sottolineature di cronache rock e interviste assortite («Interviews are worthless» sentenzia esplicitamente Cobain) – il vettore di prossimità umana al Cobain di Montage of heck. Un ripiegamento all’interno ancor più evidente nell’ultima parte che – nei temi e nelle forme – circoscrive l’esatta misura della dimensione elettiva a cui Kurt finiva per tendere. Il bisogno radicale di appartarsi e rinchiudersi dentro, rinunciando se necessario anche alla causa del rock per amore paterno. La star scompare, lasciando spazio alle smorfie e ai bagnetti di papà con la neonata Frances Bean, e al discorso amoroso cervellotico e stralunato con Courtney Love.

Lo scacco cruciale non sta nel passaggio rocambolesco dalle miserie dell’anonimato alla consacrazione del successo. Ma nella frattura esistenziale conseguente all’insopportabile gestione della prigionia della fama. Alla congenita incapacità di spenderla per risanare ferite aperte da sempre. Qui Morgen si aggrappa opportunamente alle immagini e alla loro differenza – più che al suono e alle parole – per registrare il cambio di prospettiva e l’inversione di senso. Le apparizioni pubbliche di Kurt diventano impietosa vetrina del dolore, manifesto crepuscolo dell’idolo dopo la (sub)liminale annunciazione della fine (la caduta sul palco dell’inizio, su cui Morgen non a caso ritorna). La dimensione intima e privata, dove notoriamente cadono maschere e ruoli, si trasforma invece nello spazio di resistenza del Cobain artista, performer in esclusiva per moglie e figlioletta, due persone, proprio quell’audience degli inizi che a Kurt bastava per sentire di avere tutto. Nel footage ufficiale il rocker è ormai un’ombra, dimesso, distante, annichilito fino all’overdose da un tradimento semplicemente accarezzato e mai consumato dalla Love (Where did you sleep last night, il congedo da Mtv Unplugged in New York), addirittura umiliato dalla propria stessa presenza, fino a sentire di doversene scusare di fronte agli altri (All Apologies). Di contro, sono i filmati in Super-8 nel rassicurante (?) nido familiare a contenerne la residua energia dirompente, la personalità stupida e contagiosa, tra sberleffi provocatori e boccacce espresse nei giochi infantili e nelle prese in giro degli inquisitori.

Prima che le luci si spengano, si staglia la strenua e fraintesa volontà di rifiutare con fermezza autolesionista la mitologia del profeta maledetto, del predestinato bigger than life – peraltro caldeggiata pure da mamma Cobain, che considera il matrimonio fallito con Don come qualcosa di comunque «necessario» (a partorire l’“alieno”, si capisce) – costola subculturale di quel reaganismo finto e conformista che attecchisce tra le falegnamerie marcite di Aberdeen. E a cui Kurt reagisce scattante prima da teppista imbrattamuri, sfasciando vetrine ed elettrodomestici tra i rifiuti. Poi da alfiere refrattario di una new wave del rock fugacemente rivoluzionaria. Infine da martire inconsapevole e icona postuma consegnata ai posteri. Non prima di ritornare, un’ultima volta, soltanto un bambino dal sorriso strafottente.

Come as you are
as you were.