“Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito”
William Blake – The Marriage of Heaven and Hell
“I martiri quando entrano nell’arena si tengono per mano; ma vengono crocifissi soli”
Aldous Huxley – Le porte della percezione
Prima di chiedersi cosa e quanto ci sia realmente di Kurt Cobain nel catatonico, ammutolito e disfatto Blake, la rockstar in fase di decomposizione avanzata impersonata da Michael Pitt in Last Days (2005) di Gus Van Sant – dichiaratamente ispirata all’ex frontman dei Nirvana – è necessario estrapolare i simbolismi attivati dal nome tutt’altro che casuale – anzi, è vero il contrario – addossato al personaggio. Appurando come la controfigura finzionale su cui si adagia giunga a irradiare senso e prospettare nuovi sensi intorno al profilo e all’aura del Cobain autentico, trasfigurato oggetto d’indagine e neanche troppo nascosto specchietto per la fascinazione dello spettatore.
Blake, dunque. Nome evidentemente caro agli avventurieri maledetti dalla fine segnata e dalle ore contate del cinema della frontiera indie-rock, se anche Jim Jarmusch per il cupo (anti)western Dead Man (1995) battezzava come William Blake il suo (anti)eroe in lento viaggio verso la morte come il musicista di Pitt. Van Sant certamente non subisce troppe influenze e non dialoga con nessun’altro cinema che non sia il suo, com’è chiaro nella scena al pub dove Blake chiude le porte alla conversazione con un interlocutore d’eccezione, il regista di Gummo e Spring Breakers, Harmony Korine.
Eppure, come per Jarmusch, anche il suo martire eredita il nome dal William Blake (1757 – 1827) poeta e vate dell’immaginazione al potere. Del superamento ascetico dei cinque sensi. Sospinti oltre le vette più inintelligibili della conoscenza. Verso “porte della percezione” dischiuse sull’orlo della rivelazione abissale. Quella che entrambi i Blake – il poeta nella celebrazione (postuma) della sua arte, la rockstar sconfessandola nel rifiuto del successo e nell’accoglienza della morte – aspirano a varcare per sublimare l’arido vuoto di senso in cui si vedono intrappolati nelle rispettive epoche. Lontane ma ugualmente diffidenti nei confronti della diversità e della pazzia irriducibile del genio.
Le “porte della percezione” sono le uniche fenditure-cardine per tentare un altrimenti difficile ingresso nel raggelato Last Days. Dislocate con insistenza nella tessitura formale di Van Sant. Immergendo Michael Pitt dentro un tappeto sonoro lievissimo e impercettibile, balsamico e quasi taumaturgico panorama di suoni e rumori naturali (scrosciare dell’acqua, stormire di foglie, versi e cinguettii animali, campane in lontananza). Un brano di soundscape ambientale ad opera della compositrice tedesca Hildegard Westerkamp, il cui titolo è proprio, significativamente, Doors of Perception. Soglie percettive spalancate anche sul visivo. Nella luminosità granulosa, limpida e vividissima degli esterni arborei della fotografia di Harry Savides (quasi settecentesca, alla Barry Lyndon, richiamando il secolo di William Blake ancora una volta). Filtro con effetto pupilla dilatata dagli stupefacenti su uno spettro di colori intensamente più carichi.
Qui il riferimento che ha in mente Van Sant è Aldous Huxley. Non quello distopico di Brave New World, ma lo sperimentatore allucinogeno del saggio Le porte della percezione (1954) – il cui titolo è una puntuale citazione di Blake poeta (a riprova della fitta coerenza di rimandi interni imbastita da Van Sant). Un racconto di esperienze autobiografiche dell’autore che decanta le virtù della mescalina nel liberare il cervello dalle rigide gabbie normative imposte dalla società (le stesse che forzano Blake alla riabilitazione per vedersi accettato). Accedendo a un grado di consapevolezza mistica superiore. Quella che Blake prova ad afferrare nelle sua fuga inesausta dal contatto. Rintanato nella flebile e delirante seduta (psic)analitica con se stesso. Ma che riesce ad afferrare soltanto nella morte. Quando non solo lo spirito, ma anche il nudo corpo può infine staccarsi dall’involucro castrante e arrampicarsi verso l’agognata liberazione (l’unico inserto surreale).
L’operazione gelida e in sottrazione di Van Sant non è meno suicida del suo protagonista, nel disattendere lo zoccolo duro dei puristi trepidanti all’idea di metter le mani sul (presunto) biopic mimetico ed esplicativo sull’ultimo Cobain, finendo satolli dopo l’ennesima scorpacciata dell’icona.
Rassomigliando – nell’inquadratura immobilizzata, nelle angolazioni frammentate, nei movimenti senza scopo, nella contorsione insensata delle pose di Blake – all’andirivieni discreto e nascosto, alle manovre randagie di un inquieto roadie autodistruttivo che pedina pudicamente la sua rockstar rallentata e disarmata dalla sofferenza.
Rimossa dal palco e confinata nel backstage dell’esistenza, per sabotarne volutamente la (messa in) scena (l’esecuzione di That Day di Blake/Pitt nella sala prove lasciata sullo sfondo, con la m.d.p. che raddoppia il distacco di Blake allontanandosi, guardando a distanza, dall’esterno, ammettendo solo il canale sonoro). Strappata così alla cristallizzazione sintetica del pantheon idolatrico («Hai chiesto scusa a tua figlia per essere un cliché del rock’n’roll?» incalza una manager discografica di Blake). Per essere disciolta nell’inerzia immobile, nella solitudine insostenibile del quotidiano.
Isolandola e rubandole i riflettori (“with the lights out”) solo per farne emergere l’umanità, la sensibilità inconciliabile e lo smarrimento invisibile. Obbligando il pubblico a contemplare lo svuotamento e il silenzio prolungato dall’altra parte dello schermo. Saccheggiando l’apparato visivo e la forma-cinema, disinstallando la strumentazione narrativa, scarnificando l’impianto acustico. Contro il rumore mediatico lucrosamente paventato nella bassissima docu-reality di troppi Mtv special sgranati morbosamente sulla barella in uscita da casa Cobain (che pur Van Sant non evita di mostrare, accompagnata però dal provocatorio lirismo del coro a cappella di La guerre dei King’s Singers).
Distorcendo striature grunge a tutto volume ma disattivando ogni distorsione indebita su un’icona che qui ridiventa persona, lentamente affievolita fino a spegnersi del tutto, tradendo parzialmente il drammatico epitaffio “it’s better to burn out than fade away”. Restituendo la figura di Cobain a una dimensione musicale ed esistenzialista squisitamente unplugged, a voce strozzata e corde spezzate (Death to birth dei Pagoda di Pitt proposta in acustico). Scollegata innanzitutto dal contesto di riferimento, quell’underground non più terremoto vibrante in cui sgomitare febbricitanti, sfasciare chitarre e urlare al mondo la rabbia di una generazione, ma un sottobosco intimo ed emotivo che cerca nella fusione panica con la natura l’ultimo rifugio possibile per difendersi da un’umanità definitivamente alienata.