Beatles – Revolver

Revolver
Partiamo da un postulato: stiamo parlando di uno dei dischi più importanti di tutti i tempi. Il 1966 è stato un anno fondamentale nella cultura Pop del novecento, probabilmente il punto di snodo decisivo nella cultura giovanile. La sublimazione musicale arriva con Revolver dei Beatles, un album che giunge dopo che la beatlemania già impazziva nel mondo da un paio di anni. I quattro ragazzi di Liverpool stavano prendendo delle decisioni che li avrebbero trascinati nella leggenda. Questo disco succede di poco, in ordine temporale, alla decisione della band di lasciare per sempre la loro attività dal vivo. Troppo complessa la loro ricerca musicale per quelli che erano gli amplificatori e gli impianti inadeguati dell’epoca. Senza aggiungere lo stress dovuto a un tour massacrante. La scelta cadde su una musica ragionata ed impegnata, una costruzione sinfonica proustiana.

Nella primavera del 1966 i quattro di Liverpool si chiudono negli studi EMI di Abbey Road, e dopo oltre cento ore di registrazione producono Revolver. In studio utilizzano strumenti etnici, come il sitar, i tamburelli e le tablas, – complicate da usare dal vivo – e arrivano ad usare persino strumenti classici come il flicorno. Su tutto la sapiente mano del maestro George Martin, che ha fornito all’album quella armonia sinfonica che raggiunge la perfezione. Revolver possiede una copertina che sembra anticipare i temi del futuro Sgt. Pepper: opera dell’artista amico Klaus Voorman, che disegna temi in bianco e nero psichedelici riconducibili ai tempi di Amburgo – in compagnia del primo amico di Lennon, Stuart Sutcliffe fondatore dei Beatles.

La stampa gridò al capolavoro assoluto con rarissime eccezioni: tra queste va ricordato ciò che scrisse Ray Davies, storico frontman dei Kinks, che bocciò l’album a parte un paio di pezzi. Tornando all’album, si annusa anche l’influenza delle droghe nel percorso formativo che ha portato alla produzione dell’album, che unito all’ascolto del suono “Motown” ha prodotto qualcosa di unico e forse irripetibile. Recentemente, ascoltando più volte l’album, non ho fatto altro che rafforzare quelle tesi che mi frullarono in testa al primo ascolto.

Taxman” è un brano rassicurante per chi già seguiva i Beatles: brano calato perfettamente nella swingin’ London anni sessanta, con una chitarra acida e l’uso del fuzz. Il pezzo ha degli aspetti anche coraggiosi, ispirandosi alla tradizione religiosa mistica mischiata a una polemica politica sull’eccessiva tassazione della politica inglese. “Eleanor Rigby“, invece, è un unicum assoluto: nesssuno dei Beatles suona, tutto scorre in una orchestrazione climatica. Un susseguirsi di pennellate fantasiose che sembrano seguire lo stile e la sensibilità di Paul McCartney. L’ingresso ufficiale nella psichedelia sixties arriva con la terza traccia dell’album: “I’m only Sleeping” brano che coniuga le future istanze contestatrici di John Lennon / Yoko Ono con la voglia di stupire di George Harrison, che opta per suonare al contrario nell’assolo. Manifestazione sonora ulteriormente accentuata in “Love You To” dove Harrison richiama formalmente il maestro indiano Ravi Shankar  – che nel frattempo è diventata la nuova fonte d’ispirazione del chitarrista inglese. “Here, There and Everywhere” è una delle gemme preziose dell’album; il suono della Motown e le armonie vocali del primo Brian Wilson dei Beach Boys hanno avuto la loro influenza su un McCartney che incastona nella fantasia di un uomo le immagini di una donna, dei suoi occhi e dei suoi capelli. L’atmosfera romantica lascia il posto all’esercizio bandistico di “Yellow Submarine“: Ringo Starr si lascia ispirare dalle filastrocche per bambini, costruendo vocalmente una canzone visiva, fatta di cantilene, rumori di fondo e cori sovrapposti. Esercizio di bravura.

La seconda parte dell’album si apre con “She said, she said“: altro pezzo in stile Taxman, acido con testo assolutamente oscuro ed incentrato sulla pazzia. L’allegria degli anni sessanta ritorna, accompagnata da un lussureggiante pianoforte in “Good Day Sunshine“, prima del riff di chiatarra distorto che apre “And your bird can sing“. La bellezza e modernità di questo pezzo è dovuto alla capacità sinergica delle chitarre di Harrison e McCartney di non sovrapporsi mai. Questa canzone è stata reinterpretata anche da tante band punk, grazie al fascino esercitato dal suo climax musicale semplice e violento al contempo. “For no one” è davvero un capolavoro: l’esercizio di bravura di Paul MCartney raggiunge la massima esaltazione; costruzione musicale barocca, atmosfera quasi classica e fuori dal tempo, testo tristissimo ma insieme speranzoso. Paul McCartney avvicina la sua scrittura alla poesia.

Torna forte John Lennon con la sua forza lisergica in un brano come “Dr. Robert” che sancisce un ritorno all’amato rock anni cinquanta ammodernato con la sperimentazione della doppia voce fuori fase. Anche Harrison approfondisce il tema della dissonanza nella canzone “I Want to Tell You” che affronta il tema dell’incomunicabilità fra esseri umani. Mentre, “Got to get you into my life” non è altro che: allegria, fiati in stile Motown, richiami alla libertà, al viaggio e alla marijuana . L’album si chiude con “Tomorrow never Knows”, un assoluto colpo di genio: l’idea è di Lennon, che prendendo spunto dal Libro Tibetano dei Morti costruisce una melodia fatta di riff acidi e loop di batteria, caos e rumori. Un accordo infinitamente assegnato che richiama all’ipnosi stupefacente dei viaggi lisergici. L’effetto ancora oggi è coinvolgente, in quegli anni fu una rivoluzione.

I Beatles, tutti e quattro presentano al mondo l’anticonformismo. E la rivoluzione si trasformò in arte. Una perfezione musicale e complessivamente artistica che i Beatles manterranno ancora per molto tempo. Un’atmosfera magica dei tempi. Un disco pauroso fatto di modernità che odorava di rivolta. La bellezza del mondo che cambiava, tutto in quattordici pezzi scritti da quattro capelloni di Liverpool. Risultato: il mondo non fu più lo stesso.