The Green Inferno: ci piace l’uomo.

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Questa volta Eli Roth fa una cosa bellissima: va sul sicuro. Con grande rispetto per i suoi personali maestri d’italiano – Deodato, Fulci e Argento –, cita il glorioso passato rendendolo spendibile e forse “formativo” per il neofita, alimentando allo stesso tempo la libido del vero esperto in squartamenti. E non crediate sia facile, bisogna sapersela giocare.

The Green Inferno prende il prestito il nome dalla seconda parte di Cannibal Holocaust – quella che vede protagonisti i quattro reporter – stravolgendone i caratteri ma non il messaggio. Il regista statunitense decide di abbassare leggermente il livello di crudeltà – che rimane altissimo – a favore di una lettura maggiormente disinibita. Un saliscendi emozionale ben dosato, capace di alternare momenti da “cuore in gola” a vere e proprie risate di pancia – su tutte la masturbazione di Leandro per abbassare la tensione in cella –, mantenendo così una caratterizzazione dei personaggi a dir poco ottimale.


Qui esiste un solo protagonista: l’uomo. Il film si muove attraverso quelle dinamiche di sviluppo del pensiero umano che convergono irrimediabilmente nella violenza. Una bipolarità evoluto/primitivo accomunata dalla medesima sete di sangue, ma capace di evidenziare quel tribalismo nell’atto primitivo di cui l’uomo moderno è ormai sprovvisto.

La sfiziosa cucina indigena qui ritratta, non si fa certo problemi nel preparare “arti umani al cartoccio”, insaporiti da spezie e fatti alla brace. Come sembrano così conviviali le discussioni fra le donne native del posto ai fornelli. Una cruda analisi di due mondi che differiscono nel metodo ma non nell’approccio – l’idealismo da quattro soldi del velleitario Leandro.

E così, ecco emergere lentamente tutta la gamma di nefandezze in seno all’essere umano: la gelosia, rappresentata da quel lucchetto che proprio non vuole chiudersi, l’opportunismo del mors tua vita mea, e l’ipocrisia  –  “io sono vegana” detto in cella con un piatto di frattaglie composte da quello che resta degli amici come happy meal.

Resta la maestosità di una natura selvaggia e lussureggiante impressa negli occhi di Justine, imprinting che porterà nuovamente alla menzogna, questa in bene, da parte di chi ha finalmente capito quale sia il vero volto dell’ambizione.