Drive Like Jehu – Drive Like Jehu

Acquista: Voto: (da 1 a 5)

Spulciando fra le memorie liriche del post-hardcore, perlomeno quelle basilari, ci si imbatte facilmente in un’immagine. La più evocativa di tutte, oserei dire. C’è una torta, e c’è qualcuno pronto ad addentarla, non sappiamo se uomo o donna. Un precipitato di vita, in poche parole. E la torta non è una torta qualsiasi, ma è la torta del suo quarantasettesimo compleanno. E aggiungi pure che la torta, in quel dato momento, gli piscia acido sulla faccia. Se ho scritto cinque volte torta in poche righe, è solo per enfatizzare il concetto. Ma non è finita qui, perché il narratore di questa storia, rivolgendosi al protagonista, gli ricorda che nessuna candela potrà mai riaccendere il fuoco che ormai, da troppo tempo, si è spento nel suo cuore, nella sua vita, nel suo domani.

“Learn to relax, if it kills you
You had your chance
Hold on, cause it’s gone”

Stiamo parlando ovviamente di “If it kills you”, brano epocale dei Drive Like Jehu, tratto dal loro altrettanto epocale esordio eponimo. Ed epocale qui non è un aggettivo messo a caso. Era il 1991, quando il disco venne pubblicato. Era da poco uscito “Spiderland” degli Slint. Un anno prima era stato il turno di “Repeater” dei Fugazi. Insomma, nel giro di dodici mesi arrivarono nei negozi tre fra i dischi più importanti del post-hardcore, e non solo. Forse i più importanti in assoluto. E se gli Slint procedevano per sottrazione e dilatazione, mentre i Fugazi giocavano ad entrare ed uscire dal (post)punk, complici anche le inclinazioni dub del basso di Joe Lally, fu attraverso la furia de-strutturata dei Drive like Jehu che il genere raggiunse la sua massima espressione, o meglio, l’apice del suo espressionismo. La terza parte della suddetta trilogia, o trinità se preferite, riaccese lo spirito dionisiaco del punk, sostituendo al segno della croce, nella chiesa del songwriting più tormentato, un solfeggio math-rock.

De-strutturazione, dicevamo, ma anche e soprattutto rabbia, ansia, malessere. E voglia di comunicare tutto questo senza cedere a facili soluzioni, ma neanche a gelidi ed astratti cerebralismi. Il risultato sono nove tracce in costante bilico fra una forma-canzone rock corrosa da acidi hardcore (“Spikes to you”, “Atom Jack”), e composizioni che si divertono a fare edilizia d’avanguardia nel paesaggio sonoro, fra tempi irregolari, macro-strutture, e improvvisi deserti (“O pencil sharp”, la succitata “If it kills you”), senza però rinunciare all’incontenibile urgenza del canto(urlo), merito di una memorabile staffetta vocale fra Rick Froberg e John Reis (prima insieme nei Pitchfork, poi negli Hot Snakes, il secondo è noto soprattutto per i suoi Rocket from the Crypt).

È questo, in breve, il miracolo dei Drive Like Jehu: essere riusciti a rivoltare il rock come un calzino, quando ormai ci avevano già pensato gli Slint e i Fugazi. Essere andati oltre, senza lasciare indietro l’energia drammatica del punk, ma anzi rinvigorendola. Aver scritto, in sostanza, canzoni complicatissime che suonano dirette ed immediate come un classico dei Dinosaur Jr. o dei Nirvana. Ascoltate ad esempio( per credere, o per ricordare) “Caress”, il fulminante brano d’apertura. Un capolavoro nel capolavoro. Un precipitato di vita, si diceva all’inizio. Un poster abrasivo da appendere nella vostra ideale cameretta post-hardcore.