Sparta – Wiretap Scars

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Riassunto delle puntate precedenti:

Succede una cosa bellissima. Succede che “Relationship of Command”. Succede che dopo molto sbattimento (la gavetta iniziale, i cambi di formazione, i concerti dentro e fuori i confini nazionali) gli At the Drive-In approdano all’etichetta Grand Royal Records di Mike D, un terzo dei Beastie Boys. È sempre stato il loro sogno. E pensano che sia il luogo ideale dove far nascere la nuova creatura. In cabina di regia c’è Ross Robinson, che ha già prodotto, fra i tanti, gli esordi di Deftones, Korn, e Limp Bizkit. In pratica l’inventore del nu-metal. Ad occuparsi del missaggio invece c’è Andy Wallace. E qui abbiamo già la prima magagna, perché quel missaggio, al chitarrista Omar Rodriguez-Lopez, gli andrà di traverso. “Troppo plasticoso”, dirà in seguito. E pare che la precedente versione dell’album, mai pubblicata, sia infinitamente superiore in termini di energia e di potenza. Fatto sta che il disco è una bomba anche così. In copertina c’è il Cavallo di Troia. E forse sarà proprio quel mix un po’ “plasticoso”, come dice Omar, ad essere lo stratagemma bellico che consentirà alla band di irrompere in quella di Troia di MTV.

Pensateci un attimo: ragazzini che vanno in fregola per i ritmi e per le complessità di quella grandiosa summa post-hardcore che risponde al nome di “One Armed Scissor”, che strillano il suo indimenticabile ritornello, dalle liriche a dir poco criptiche, sorretto da un riff portentoso. Una mossa geniale. Nuovi acquirenti vengono succhiati direttamente dal pubblico di MTV. Il mercato della band di allarga, forse in modo inaspettato. Ma non sarà il successo, con le sue tanto decantate pressioni, a decretare la fine della band, poco dopo il trionfo dell’album. Saranno le tensioni interne, le divergenze artistiche fra i membri, fino ad allora carburante creativo, a far divampare la pratica divorzio. “Relationship of Command”, infondo, parla proprio di questo. Di quanto sia difficile far coesistere, in un rapporto pacifico, degli animi dalle istanze creative così differenti. Solo che in questo caso, a dire l’ultima parola, c’ha pensato il regista Ross Robinson. E il resto, almeno per noi, è Storia.

Istanze creative differenti, dicevamo. Da una parte Omar & Cedric: due afro-folletti, dall’estro musicale trans-gender, che adorano complicarsi la vita. Dall’altra Jim, Paul, e Tony: la sostanza old-school, il lato rassicurante della medaglia, detto fra molte virgolette. Quelli che, tanto per fare un esempio, cercano di metterci una pezza mentre gli altri due mandano a puttane l’esecuzione live di “One Armed Scissor”, nel programma tv del musicista e conduttore inglese Jools Holland.
“Un giorno mi sono alzato, e ho capito che non amavo più mia moglie”. Dichiarerà poi Omar. E la moglie in questo caso sono gli At the Drive-In. Si divide il gruppo, in soldoni. Gli afro-folletti fondano i The Mars Volta, mentre i sedotti e abbandonati, ma sarebbe meglio dire cornuti e mazziati, fondano gli Sparta. Siamo nell’Agosto del 2002, ed esce “Wiretap Scars”, anticipato di qualche mese dall’E.P “Austere”.

In una delle interviste del periodo compreso fra il post-relationship e lo scioglimento, scusate il bisticcio concettuale, Cedric dirà che il seguito del suddetto album potrebbe essere influenzato da “The Piper at the Gates of Dawn” dei Pink Floyd. E anche se il fantomatico follow-up non vedrà mai la luce, non sono parole campate in aria. Gli ATDI hanno infatti nel loro repertorio una cover di “Take Up Thy Stethoscope and Walk”, tratta da quel disco. Ad ogni modo c’è da immaginare Jim Ward che, dinanzi alla prospettiva “At the Drive-in At the Gates of Dawn”, gli fa eco con il gesto dell’ombrello. E tutto questo “Wiretap Scars”, qui sta forse uno dei suoi limiti, sembra un gesto dell’ombrello lungo tredici tracce fatto a quei presuntuosi, sia detto per ridere, dei The Mars Volta.

Parliamo del disco:

Si parte con “Cut your ribbon”. E quando Jim attacca a cantare lo fa con la stessa forza, e con la stessa intensità, dei migliori episodi targati ATDI. Il pezzo è di quelli che potrebbero spopolare, sfruttando l’onda lunga del crossover, dell’alternative rock, del post-grunge. In radio e su MTV farà la sua porca figura. Mi sa che quel missaggio “plasticoso” , di cui parlava Omar, a Jim non dispiaceva affatto. Peccato solo che ascoltando il pezzo, che pure è un signor pezzo ed è fra le vette assolute dell’album, uno spera sempre che prima o poi faccia capolino la voce di Cedric, dietro l’angolo di un ritornello magari. Qui sta il problema. Da perfetto comprimario qual era negli ATDI, da spirito complementare, e tuttavia essenziale per l’economia creativa del vecchio gruppo, Jim soffre la nuova dimensione di frontman, di leader, di centro catalizzatore dell’attenzione. Più che dignitoso come cantante e chitarrista, rimane comunque uno Ian MacKaye senza il suo Guy Picciotto. O più semplicemente un Jim Ward senza il suo Cedric. Più avanti nel tempo, non a caso, si lascerà andare, nei suoi Sleepercar, ad un songwriting decisamente più pacato e riflessivo, con echi di Dean Wareham e del country del suo adorato Gram Parsons.

Quella montagna d’uomo di Paul Hinojos, che prima di alzare qualche spiccio con la musica lavorava come operaio in fabbrica, qui è nelle vesti di chitarrista e di seconda voce, facendo più o meno quello che faceva Jim Ward negli ATDI. Al basso invece c’è un certo Matt Miller. Il batterista Tony Hajjar si è fatto crescere i capelli, e durante i concerti indossa la maglietta di “Master of Puppets” dei Metallica. Picchia come un addannato, il buon Tony. Però Jim ha il cuore tenero, e infarcisce il disco di simil-ballate mezze post-hardcore, che vorrebbero anche strapparti la lacrimuccia. Insomma, quando il disco rallenta, funziona molto meno, eccezion fatta per “Collapse”, che ha dalla sua una buona progressione melodica, fino all’esplosione del ritornello.

Meno buona, invece, “Cataract”, che cita spudoratamente l’arpeggio iniziale di “Invalid Litter Dept.”, senza replicare minimamente il senso di drammaticità del brano, e condendo il tutto con degli inserti di elettronica che risultano solo posticci.
“Mye” e “Light Burns Clear” sono forse, insieme a “Cut your ribbon”, i brani più riusciti di un disco il cui peccato originale è il confronto impietoso con “Relationship of Command”. Un disco, questo “Wiretap Scars”, nato sotto una cattiva stella, tutta texana. Già, Texas Is The Reason, verrebbe da dire. E infatti è quello il tipo di post-hardcore che alimenta le tracce dell’album. Bello, per carità, ma privo dell’estro e della follia di Omar & Cedric.

Curiosa inoltre la somiglianza, davvero evidente, fra la strofa di “Air” e quella di “Sirens” degli Angels & Airwaves di Tom DeLonge, tratta da “I:Empire”. Vogliamo giocare ai gradi di separazione? Il batterista di quell’album è Atom Willard, già all’opera, fino al 2000, nei Rocket From The Crypt di John Reis, membro fondatore dei Drive Like Jehu, gruppo di assoluta importanza per la formazione musicale degli ATDI.

In conclusione, “Wiretap Scars” è un buon disco, con una manciata di canzoni efficaci, e con altre francamente dimenticabili. Si lascia ascoltare, ma non si lascia amare. E non regge il confronto con un passato fin troppo ingombrante. Ma alla fine gli vuoi bene lo stesso. E somiglia a un Leonida un po’ spaurito, d’un tratto a disagio nella parte del tamarro affibbiatagli dalla ditta Butler-Miller-Snyder, che prova ad urlare:“Questa è Sparta!”. Ma non è che ti convinca molto.