The Mars Volta – Noctourniquet

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Il sei è il numero del diavolo, di colui che divide, e infatti dopo “Noctourniquet”, il sesto album di inediti dei The Mars Volta, datato 2012, la band si scioglie. Anche se la storia ci insegna che la parola “scioglimento”, quando si parla di Omar Rodriguez-Lopez e Cedric Bixler-Zavala, non va presa troppo sul serio. Vedi gli Antemasque. Vedi la reunion degli At the Drive-In. E a questo punto non darei nemmeno per scontata la reale conclusione del capitolo, o meglio, della saga firmata TMV. Come sempre, sarà il tempo a dissipare gli arcani, magari sotto forma di comunicato stampa, o sotto forma di tweet.

Di cosa parliamo, quando parliamo di Omar & Cedric? Parliamo di una coppia di amici fraterni, di origini portoricane il primo, messicano/tedesche il secondo, che insieme hanno praticamente condiviso tutto, fin dalla prima adolescenza, per non dire dalla pubertà. I primi ascolti. I primi concerti. Inseparabili davvero, Omar e Cedric. Nell’asfittica città di El Paso, grazie agli amici più grandi, e più esperti, hanno scoperto il cinema, la musica. E poi, sempre insieme, hanno scoperto il bello di creare, di comporre, di suonare dal vivo le proprie canzoni. Perché mi piacciono così tanto? Perché sono due infaticabili operai dell’estro creativo, appunto.

Gli anni passano, e i due disegnano un percorso discografico che ha pochi precedenti nella storia del rock. Un’edera rampicante di stili, di umori, di influenze, che non conosce tregua. Prima con gli At the Drive-In, poi coi The Mars Volta. Dal vivo sono una garanzia. E i loro dischi, seppur controversi, sono oggetti di culto. Sia prima che dopo. Non è da tutti. Non lo è affatto. Da capelloni bizzarri su cui nessuno avrebbe mai puntato un dollaro, arrivano a vincere un Grammy Award, nel 2008, grazie a “Wax Simulacra”, il primo singolo estratto da “The Bedlam in Goliath”. Una delle loro opere di maggior successo. Successivamente, dopo il poco riuscito “Octahedron”, del 2009, inizia l’era di “Noctourniquet”. Il disco della discordia.

Alla batteria siede Deantoni Parks, che subentra al posto di Thomas Pridgen, ora turnista con Eros Ramazzotti (true story). Niente di strano, fin qui. Il ricambio dei batteristi è un’altra costante della band. Ne sanno qualcosa Jon Theodore, Blake Fleming e David Elitch. Nel frattempo, però, ci sono state delle tensioni. Cedric non riesce più a reggere i ritmi produttivi di Omar, che ormai, tenendo anche conto dei suoi progetti paralleli, è diventato uno che in pratica ogni mattina si alza dal letto, si stiracchia, e poi registra un album. Encomiabile, certo. Ma Cedric è a terra. Nei tre anni che separano l’uscita di “Octahedron” da quella di “Noctourniquet”, il nostro ricarica le batterie. E cambia vita. Diventa un adepto di Scientology. Si disintossica. E mette su qualche chilo. Il gruppo non è mai stato fermo per così tanto. E il rapporto fra i due sembra risentirne. Ma com’è, questo “Noctourniquet”?

Contrariamente all’opinione diffusa, è il disco più interessante della band dai tempi di “Frances The Mute”, ossia il secondo full-lenght. La trama sottesa alle liriche prende spunto dalla filastrocca di Solomon Grundy. È un concept-album, ancora una volta (solo “Amputechture” e “Octahedron” rappresentano l’eccezione, in questo senso). Penalizzato forse da tre, o anche quattro, canzoni di troppo, “Noctourniquet” si dimostra un album dalla genesi travagliata e involuta, ma nonostante ciò ci consegna una band ancora capace di inventare, di sorprendere, di contaminare i codici del proprio linguaggio, senza abbandonare l’impeto punk degli esordi.

“The Whip Hand” è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto alle melense, e in fin dei conti noiosette, ballate che proliferavano sul precedente “Octahedron”. Se Jon Theodore era il re del rullante, e Thomas Pridgen un fustigatore ossessivo dei piatti, Deantoni Parks è uno schizzato ballerino di tip-tap sul charleston. Non ci sono più le tastiere e gli organi di Ikey Owens, che due anni più tardi purtroppo ci lascerà per un arresto cardiaco. C’è invece una massiccia presenza di synth. Il brano è dark, il più dark che sia mai stato realizzato dalla band. E anche il più Brainiac, ovvero il gruppo, adorato dai due musicisti, del compianto Tim Taylor.

La chitarra di Omar abbandona quasi del tutto la “grandeur prog” acquisita nel corso del tempo, e riscopre il noise. Ma c’è di più, perché quando arriva il ritornello di “Dyslexicon”, la terza traccia, succede un evento di quelli epocali, di quelli che ti fanno venir voglia di correre a chiamare il tuo amico di una volta, solamente per dirgli: “Hai sentito?”. Succede che Cedric torna ad essere il cantante degli At the Drive-In. Succede che Cedric torna ad urlare come se fosse in un disco post-hardcore. E le sorprese non sono finite.

“Empty vessels make the loudest sound” risponde all’eterno quesito, eterno almeno per il sottoscritto, come sarebbero i The Mars Volta suonati dai My Bloody Valentine? Esatto: TMV + MBV, con tanto di chitarra dream-pop nelle strofe. Ma il meglio deve ancora venire, come direbbe Luciano “distanteannilucedaqui” Ligabue. Perché Cedric, proprio lui, quello che da urlatore stonato negli ATDI è poi diventato il Robert Plant dei TMV, capisce di poter usare il registro vocale basso. E il risultato è “The Malkin Jewel”, un concentrato di ghiottonerie weird-wave, dal post-punk dei The Fall (Mark E. Smith, altro nume tutelare di Cedric), fino ai Grinderman di NIck Cave (a tal proposito si prega di confrontare il brano in questione con la loro “Heathen Child”).

“In Absentia” è, a pari merito con “Dyslexicon” e “The Malkin Jewel”, l’apice assoluto del disco. “Non l’ho neanche mixata”, ammetterà in seguito Omar. Tutti sembrano suonare contro tutti. Omar imbastisce uno scenario apocalittico alla Carpenter, Deantoni Parks cerca, e trova, le soluzioni ritmiche più improbabili, mentre Cedric va a caccia di una melodia che salvi l’anima, su una base sonora pressoché inavvicinabile, sopra la quale pochi al mondo riuscirebbero a cantarci qualcosa. Eccetto lui. Il disco potrebbe anche finire qui. E se finisse qui sarebbe un capolavoro. “Future-Punk”, lo ha definito Cedric. “Punk nello spirito e non nella cresta”, avrebbe aggiunto. “È il nostro disco kraut”, avrebbe rincarato.

“Molochwalker” è un ritorno di fiamma hard rock, alla maniera voltiana, di cui non si sentiva il bisogno. Solo la title-track riporta il disco sulle vette, altissime, della prima parte. I brani più romantici, come “Imago” o “Vedamalady”, frenano l’entusiasmo quando invece noi vorremmo solo un’altra “In Absentia”, o un’altra “Dyslexicon”. Già, il brano dove Cedric torna ad essere il vecchio Cedric. Sarò un inguaribile romantico, ma mi piace pensare che la seconda, e del tutto inaspettata, stagione degli At the Drive-In sia iniziata proprio qui, da questo ritornello. Davvero inseparabili, i due folletti di El Paso. Nemmeno “Noctourniquet” è riuscito a dividerli. Nemmeno questo disco diabolico.