Il Teatro Degli Orrori @Forte Prenestino, 13 Maggio 2016

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Ci sono serate in cui davvero, senza girarci troppo intorno, il tempo si diverte a giocare con te. E il presente si tinge di passato. Entri da una porta e ti ritrovi, come per incanto, catapultato sul set di un evento vissuto anni prima. La scenografia e il copione li hanno riadattati. E anche gli attori sono diversi, per la maggior parte. Ma la sostanza rimane pressoché identica, al di là delle variazioni. Molto più di un deja-vu. Quasi il remake di un ricordo. A Roma succede spesso. Al Forte Prenestino, lo scorso venerdì, è successo di nuovo.

Tre gruppi, un ospite speciale a sorpresa, e per chiudere un dj-set. Un concerto di beneficenza, organizzato per aiutare una sorella, come si legge nelle note di presentazione, che sta affrontando una grave malattia. La data è stata pubblicizzata su internet e per le strade della capitale, ma non in modo esagerato. Resta piacevole pensare che l’eventuale affluenza, in una dimensione parallela alla nostra, sia stata affidata solo ed esclusivamente al colpo d’occhio dei passanti, più o meno notturni, che leggendo un manifesto, affisso magari a San Lorenzo, avranno detto: “Il Teatro degli Orrori al Forte? Cazzo, dobbiamo andarci!”. Tutto questo considerando gli altri nomi in programma alla stregua di un dettaglio collaterale. Nomi che comunque non hanno deluso le aspettative, e anzi hanno offerto al pubblico, moderatamente numeroso, uno sfizioso antipasto in vista della portata principale.

I primi a salire sul palco, allestito nell’area esterna, sono stati i Lento, una band romana dedita al culto dello sludge: chitarre dalle oscure accordature e piatti che picchiano, vibrando e dilatando, come campane a morto elettrificate. E poi i Triple Sun, che vedono in formazione Massimo Pupillo degli Zu, qui alle prese con un repertorio decisamente più morbido ed intimista. Peccato solo per le condizioni meteo, e per l’imminente rischio FANGAZZA.

Ricordi, dicevamo all’inizio. Ma anche sorprese, come quando sono arrivati sul palco gli Afterhours. E sono stati loro, più di chiunque altro, a dare uno schiaffo alle lancette, riportandole indietro di oltre dieci anni, a quando insieme ai Gutter Twins (Greg Dulli + Mark Lanegan) si sono esibiti al Villaggio Globale di Roma. Era l’11 Settembre del 2005. Allora c’erano Giorgio Prette alla batteria, Giorgio Ciccarelli alla chitarra, Dario Ciffo al violino elettrico(che da solo cantava “Dea”). C’era tutta un’altra band, in pratica. Stavolta al basso, in sostituzione di Roberto Dell’Era, un bravo e divertito Giulio “Ragno” Favero, da lì a breve in scena con Il Teatro degli Orrori. E Manuel Agnelli, per la cronaca, non sembrava invecchiato di un giorno. Sarà stato il chiodo alla supergiovane. Sarà stato il capello lungo. Sarà stato che schitarrava come un ossesso. O forse, sarà che come un Dorian Gray meneghino nasconde in casa, magari in soffitta, il ritratto di una “grassa e brutta anima senza finestra”, mentre fuori quest’uomo di cinquant’anni risplende, insieme al repertorio della sua band. Tre i brani eseguiti (“Bye Bye Bombay”, “Male di Miele”, “Quello che non c’è”), cantati in coro dall’inizio alla fine da tutto il pubblico presente. Si sapeva che ci sarebbe stato un ospite speciale, e non poteva andare meglio di così. Come in quella notte romana del 2005, il miglior rock italiano ha rimesso piede in un centro sociale autogestito. Alcol a fiumi e ritornelli storici, a prezzi nuovamente popolari. E in più per aiutare una ragazza in difficoltà, che lotta contro la malattia. Un tributo di solidarietà, dunque, in assonanza coi temi che verranno trattati in “Folfiri o Folfox”, il prossimo album degli Afterhours, in cui pare che la piaga del cancro sarà protagonista.

Adesso, però, veniamo agli headliners. Dieci anni fa, per chi bazzicava quanto meno la programmazione notturna di Mtv, una figura come quella di Pierpaolo Capovilla era ancora legata a gruppi di marcusiana memoria tipo One Dimensional Man. Ma non per molto. Proprio allora, infatti, stava nascendo Il Teatro degli Orrori, la seconda incarnazione del nostro, che presto avrebbe dato alla luce il primo spettacolo in cartellone, quel “Dell’impero delle tenebre” (2007), che per alcuni è ancora oggi l’opera più riuscita dell’ensemble, il cui nucleo fondante, oltre che dal suddetto Capovilla, è composto da Giulio “Ragno” Favero al basso, Franz Valente alla batteria, e Gionata Mirai, già nei Super Elastic Bubble Plastic, alla chitarra. Diversi i cambiamenti, per il Capovilla, nel passaggio dalla prima alla seconda carne. Innanzitutto l’abbandono del basso elettrico e del cantato in inglese, ma non certo di Marcuse e degli insegnamenti della Scuola di Francoforte: la critica filosofica della società, dell’industria culturale, dell’uomo ridotto a fantoccio d’acciaio, privato della sua spinta desiderante in cambio di desideri indotti, e in definitiva una critica del capitalismo come motore e alimentatore, al contempo,  di diseguaglianze di classe e di omologazione mentale. Quindi Pasolini, l’altro Pier Paolo, ma scritto staccato, morto che il nostro all’epoca era appena un bambino. E poi Carmelo Bene, nel tono alticcio e cantilenante delle declamazioni. Baudelaire, Majakovskij, e De André come numi tutelari delle liriche. Senza dimenticare però l’amore per gruppi leggendari come Shellac, Unwound e Jesus Lizard. Il post-hardcore, sia detto semplificando, che incontra la grande poesia del ‘900, il marxismo applicato alla sociologia, l’impegno civile e politico contro lo status quo, con la convinzione che sia ancora quello dell’età del cucco, ma sotto mentite spoglie. Un rock mai fine a sé stesso, che vuol dire e fare qualcosa per cambiare, in meglio, il presente in prospettiva del futuro. Non a caso tutto ciò riecheggia “Il paese è reale”, brano degli Afterhours che oltretutto dà il titolo a una compilation in cui fra gli artisti figurano anche Capovilla & Co: (“Io voglio far qualcosa che serva, fammi far solo una cosa che serva… ). 

Detto ciò, il concerto è stato un mezzo disastro. Ma un mezzo disastro in grande stile. La band si è presentata sul palco ad orari che rasentano, per non dire che sfondano, la sfera del proibitivo (01:30 del mattino). Appena la band ha iniziato a suonare, spiattellandoci l’uno-due che apre l’ultimo album eponimo (“Disinteressati e indifferenti”, “La Paura”), si è capito fin da subito che c’era qualcosa che non andava. Era la voce di Capovilla, che proprio non riusciva ad innalzarsi al di sopra del wall of sound eretto dal gruppo. Generosissimo nella performance puramente scenica, il nostro è rimasto purtroppo sommerso ogni volta che le dinamiche, che i volumi degli altri componenti, raggiungevano il picco d’intensità. Il fonico ha provato a metterci una pezza, mentre il pubblico reclamava il maltolto sonoro (“Più voce! Più voce! Più voce!), ma c’è stato poco da fare. Inoltre la rottura della pelle della grancassa da parte di Franz Valente, e quindi la conseguente sostituzione dell’intero pezzo, ha causato una brusca interruzione del live, in qualche misura mitigata dalla simpatia e dalla cordialità di Giulio “Ragno” Favero, che ha chiesto scusa a tutti, risolvendo con l’autoironia quella che invece avrebbe potuto essere solo una situazione imbarazzante. Poi come se non bastasse, passate ormai le due, è anche sceso il diluvio. Perciò Momento Fangazza.

Abbiamo già detto che il concerto è stato un mezzo disastro, e per via di una serie di incombenze che esulano dall’esibizione del gruppo in sé. Ma c’è stato anche del buono. Ottima ad esempio l’esecuzione di “E’ Colpa mia”, uno dei classici della band, soprattutto perché qui Capovilla si è sentito un po’ di più, complice forse la dinamica stessa del pezzo. E persino senza la sua voce, persino sotto l’acquazzone, ci ha colpito il tiro inarrestabile di brani come “Compagna Teresa” e “A Sangue Freddo”. Altri due cavalli di battaglia, rispettivamente dal primo e dal secondo album.

Sul finale, il nostro ci ha parlato della pratica disumana del Trattamento Sanitario Obbligatorio, una tematica già affrontata nel suo album solista “Obtorto Collo”, nel brano “Ottantadue Ore”, e che è contenuta, assieme alla rimembranza dell’amore musicale per gli Slint, in una delle ultime tracce dell’album “Il Teatro degli Orrori”, uscito solo nel 2015, intitolata per l’appunto “Slint”. Prima di spiegarci il significato di questa parola, un termine gergale che starebbe per “un sottilissimo raggio di luce”, Pierpaolo è venuto a scroccare una sigaretta a bordo palco, e sia messo agli atti che ad offrigliela è stato il sottoscritto, mentre quelli vicino, seppur muniti di cancerosa fra i labbri, facevano i vaghi. E addirittura mi è parso di sentire qualcuno dirgli: “Se vuoi te ne giro una”. Per la serie: pulciari.

Molto emozionante, ad ogni modo, la chiusura con le tastiere che mimavano l’arpeggio di chitarra di “Washer”, uno dei capolavori degli Slint, tratto da “Spiderland” (1991), Capovilla che terminava il monologo, e la coppia Favero-Mirai che ripeteva in coro, guarda caso, proprio la parola “Washer”. L’esito toccante di un concerto a dir poco travagliato, fra pioggia, fumo, intoppi, e fangazza. Il Forte Prenestino, che in passato ha ospitato giganti del post-hardcore come Fugazi ed At the Drive-in, ci ha comunque regalato una serata che inseriremo nell’album dei ricordi, accanto a quelli già evocati in precedenza. Una serata, se possiamo dirlo, dai risvolti più fantozziani che fugaziani. E se il diluvio universale,accompagnato dal “Padre Nostro” nella versione degli Orrori, non è stato sufficiente a lavare via i nostri peccati, ci è parso lo stesso di vedere San Catarro, il santo protettore di tutti i fumatori, sospeso in alto nella pioggia, al posto del solito San Pietro. E poi niente, a una certa si son fatte le tre. Cominciava il dj-set. E buonanotte ai suonatori.