Goat – Requiem

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In Svezia si soffre il Mal d’Africa. Ce lo insegnano i Goat, la band venuta dal freddo che allo strapotere occidentale (il senso del gusto estetico è quasi sempre una promanazione, se non una diretta espressione, del potere in auge, o del non-potere, come vedremo) preferisce i suoni e i ritmi delle terre lontane. Deturpate? Usurpate? Depredate? Certo che sì. Un secondo però, qui non si sta mica inventando la world-music. E nemmeno si stanno scoprendo determinate sonorità (il mondo appare sverginato in eterno, questo è il fatto). Più di trent’anni fa Johnny Marr dei The Smiths trovò l’ispirazione per le chitarre del brano “This charming man” proprio durante un viaggio in Africa. Prima ancora c’erano stati i Talking Heads con “Remain in light”. E giusto di recente l’artista pop M.I.A ha compiuto un lavoro analogo sui propri elementi ritmici (e politici). E la lista continua.

D’accordo, non stanno inventando la world-music, ma i Goat, questi strani figuri che amano la penna di Thomas Pynchon (così dicono le note biografiche) e che trovano nell’afro-beat il proprio centro di gravità permanente, si rifiutano di obbedire alla voce del padrone di turno (di sempre), licenziando con “Requiem” un album che è insieme crocevia di stimoli, in costante saliscendi equatoriale, e delizia per le nostre orecchie. Si tratta di un “Requiem” che ha poco a che fare (qualcosina sì) con quello dei Verdena, ma ci fa comunque gridare “Wow”. All’appello, ovviamente, non manca il rock (spesso e volentieri in modalità Tinariwen). All’appello, a dire il vero, non manca quasi niente. E se altrove l’elemento africano funge da sostrato ideologico (vedi M.I.A), e forse in passato è stato un capriccio sexy-esoterico, un baby-doll percussivo, simile appunto al souvenir vacanziero di una bambola voodoo da esibire in teatrini lascivamente horror (Siouxsie & The Banshees, e tanto altro dark), qui non c’è appropriazione, o immedesimazione. Ma piuttosto “compenetrazione”.

Va bene, ma “compenetrazione” di “cosa”? Semplice, di “globale” e “locale”. Perché più il mondo esige un linguaggio unico, un pensiero unico, e uno stile di vita unico per tutti,  più aumentano le istanze minoritarie, quasi per effetto contrario. E poco cambia (ma molto importa) che il disco sia opera di un gruppo di svedesi e non di immigrati africani (è una fascinazione culturale in parte giocosa, quella dei Goat, che però suggerisce molto sul “nostro” nulla attuale). Eccoci dunque nei meandri del glocal-rock. Nessuna rielaborazione robotica, per quanto eccelsa (Byrne & Eno in “My life in the bush of ghosts”, era il 1981). Il “capro espiatorio” di Christian Johansson e della sua misteriosa tribù si immerge, si lascia cannibalizzare, offrendo in sacrificio i suoi (i nostri) codici espressivi (non è proprio così, ma enfatizziamo per rendere meglio l’idea). Marco Ferreri e Rafael Azcona avrebbero detto: “Come sono buoni i bianchi”!

Insomma è un “Requiem” cantato, suonato, e invocato per il tramonto dell’occidente, o meglio, dell’occidentalismo che dopo “La grande abbuffata”  ha pensato di poter ricrearsi con illimitata potenza. E invece non può più. “Deve” guardarsi “intorno” e “altrove”.  Qui ad esempio, alla terza prova della band, navighiamo lungo un Nilo spiritato di quattordici tracce né vecchie né nuove, bensì “contemporanee” (anche il concetto di “nuovo” è una nostra invenzione scaduta malamente). Ma è un viaggio che ha i suoi comfort, malgrado tutto (una voce femminile molto indie-rock che ci fa sentire a casa in terra di selvaggi, brandelli di canzoni folk, di new-wave agli albori)Non è un ascolto per tutti (e quando mai), ma è davvero un bel cespuglio di fantasmi. Non cambierà il mondo, ma può sempre (può ancora) cambiare la visione (l’ascolto) del mondo. Anche a chi non conosce un Corno d’Africa.

 

Data:
Album:
Goat - Requiem
Voto:
51star1star1star1star1star