«Benvenuta tristezza se sei tanto bella» Così mi ha detto, non tanto tempo fa, un giovane uomo. Semplice verità, in fin dei conti, come sanno bene i bambini, che sono tristi e basta. La tristezza, quella vera, è bella, bellissima, a suo modo. E sì, la lamentela, travestita da tristezza, di chi rincorre una felicità che pare dovuta (e ditemi dove sta scritto), ha fatto più danni di una resa totale a questa semplice verità. Ma ci vuole la grazia del tempo per arrivarci, e sempre il tempo avrà vinto la partita domani, o ancora oggi.
Tu amerai il prossimo tuo storto
con il tuo storto cuore.
(un poeta di nome Auden)
“I like the music, that’s the thing”
Benvenuto Elliott Smith in una domenica pomeriggio. Fermiamo gli orologi. Non usciamo. Non ho mai amato gli elogi funebri. Li ho sempre trovati finti e stucchevoli: per uno strano gioco delle parti, quando una delle due non c’è più quella che resta ci tiene a fare bella figura. Fare bella figura è un’espressione che vuol dire pressappoco: cerca di essere adeguato alla situazione, cerca di capire cosa vuol dire essere adeguato, che cosa gli altri sono disposti a riconoscere come adeguato. Per non sentirti inadeguato, che è sempre una brutta sensazione. Perché se sei inadeguato si vede subito, fai fatica a nasconderlo, ed è una fatica che costa. Anche Elliott Smith si sforzò una volta nella sua vita di fare bella figura. Infagottato in un completo bianco troppo grande, capelli sporchi, sul palco della cerimonia degli Oscar esegue “Miss Misery” (in lista per miglior canzone, dal film di Gus Van Sant “Will Hunting Genio ribelle“): è il 31 marzo del 1998, 2 minuti e 11 secondi e un milione di persone che lo guardano. “Fu abbastanza buffo, nessuno di tutti quelli che si trovavano lì era venuto per me”. Il mondo esige che facciamo bella figura, tanto più se ottieni un riconoscimento e fino al giorno prima non eri nessuno. Ma tu, lì, non conosci nessuno e nessuno conosce te. Il mondo ti chiede chi sei, fammi vedere chi sei, mentre tu, ti chiami Elliott Smith, hai 27 anni e vuoi solo scrivere canzoni.
“I’m not surprised at all and really, why should I be? See nothing wrong, see nothing wrong. I’m so sick and tired of all these pictures of me. Completely wrong, totally wrong” (Pictures of me – Either/Or)
L’elogio funebre a caldo dovrebbe essere abolito per legge. Dovremmo essere sempre abbastanza forti da preferire il silenzio e continuare a vivere con la nostalgia del vero. A me Elliott Smith è sempre sembrato un tipo a posto. Guardo le foto, qualche intervista in inglese, guardo la sua espressione e penso che mi berrei volentieri una birra con lui dopo una giornata di lavoro. Lo trovo così confortante nella sua umiltà, così brutalmente onesto nella sua semplicità. Non mi viene di costruirci sopra chissà quale storia. Lasciando un attimo da parte il suo innato talento, non vi sembra un tipo più a posto di Kurt Cobain e più umano di Jeff Buckley? “Very quiet, a real gentleman” dice il suo barista, che dice anche di sentire una strana corrispondenza quando lo incontra, “a strange parallel”. Il 15 ottobre del 1998, qualche mese dopo la cerimonia degli Oscar, esce un mini-documentario di 30 minuti “Elliott Smith: Strange Parallel“, girato da Steve Hanft tra New York e Portland. Elliott non vuole fare un documentario tradizionale, il regista gli suggerisce allora di partire dai suoi sogni. Vengono fuori 30 minuti di sogno, letteralmente. Probabilmente osservare Elliott Smith libero di sognare se stesso, per mettere insieme un film su se stesso, rappresenta la cosa più reale in mezzo a tutte le immagini che si stanno creando e moltiplicando attorno a lui. Perché alla fine l’Oscar l’ha vinto Céline Dion, e l’onda luminosa del genio talentuoso, storia felice di un ragazzo sconosciuto che ora tutti sanno chi è, nel breve spazio di un secondo si è rifratta sbattendo contro il vetro della non vittoria, del bel sogno (irreale) svanito.
Anche se per quella cosa non hai combattuto, si tratterà pur sempre, all’atto pratico, di un fallimento. Per schiodarsi di dosso quella “picture”, quell’immagine non cercata e non voluta, generata dalle circostanze, alla quale saggiamente non si ribella, Elliott Smith VUOLE farsi vedere per quello che è e accetta di farsi riprendere jeans e maglietta, sorridente, in sequenze slegate che si succedono come fotogrammi: seduto al bancone del bar mentre si accende una sigaretta, con un foglio incendiato dai raggi laser che escono dagli occhi di un mini robot e una mano meccanica al posto della mano vera, mentre imbraccia una chitarra piena di terra in mezzo a un bosco suonando “Miss Misery“.
“I’m the wrong kind of person to be really big and famous”
Che è un modo come un altro per dire: non corrispondo a nessuna idea di quello che dovrei essere. Ha forse le sue ragioni il regista di Strange Parallel quando cede alla tentazione di riabilitare l’immagine di Elliott dichiarando che tutte le persone che lo conoscono solo attraverso la sua musica non capiscono che in realtà lui era una persona divertente. Quando tutti cominciano a parlare di crisi depressiva e la vedono ovunque nei tuoi testi non c’è limite al revisionismo, soprattutto se la storia finisce a coltellate nel petto. E chi vuole difenderti riesce a fare peggio: cercando qualcosa che suoni buono e giusto e metta la tua musica all’angolo. Il cortocircuito non aiuta ma è sintomatico dell’esigenza parossistica dell’essere umano di dover per forza descrivere “quello che una persona è” cercando una chiave “in quello che fa”, tutto con le povere parole del linguaggio comune, scegliendo spesso, per comodità, tra quei due massimi sistemi che sono “depressione” e “felicità”.
“I don’t really think about it in forms of language, I think about it in terms of shapes”
Se navigate un po’ in cerca di video vedrete che tutte le interviste dopo “Miss Misery” contengono la fatidica domanda: “Come fai a fare quello che fai? Come fai a scrivere una canzone?” Del resto, riflettere troppo su ciò che si fa non è un vantaggio per un artista, ma Elliott Smith, con gentilezza, ci riprova a spiegare se stesso, con una chiarezza disarmante: “Se lo chiamate scrivere canzoni sembra una cosa di concentrazione controllata e applicata; io non so fare musica così, non so sedermi e scrivere una canzone, vado dietro a delle impressioni, cose di un minuto”. Tra l’ossessione e la melodia Elliott Smith sceglie la seconda. Soffre come soffriamo tutti ma sceglie la seconda.
“I don’t feel any sadder than anybody else I know”
“I fell onto my knees/the sound of the car driving off made me feel diseased” (Condor Ave – Roman Candle). Andare dietro alle impressioni, alle cose di un minuto può essere fatale. Non è necessariamente un’ossessione quella che ci fa cadere in ginocchio, può essere il rumore di una macchina che se ne va. E nel tempo di un minuto tutto quello che non succede pesa nella stessa misura di quello che sta succedendo. Chi conosce e ha provato l’inesorabilità di questo peso sa che in quell’istante prendersi o darsi una coltellata nel cuore sono esattamente la stessa cosa. Un modo come un altro perché quell’istante svanisca il prima possibile. Nessuno, mai, è al riparo da questa cosa. Ma dipende da quante volte ti succede. Se ti è successa molte volte e nonostante tutto sopravvivi puoi provare a guardare in faccia la tristezza, per capire se la soluzione è smettere di combatterla.
Killing time won’t stop this crying (No name #2 – Roman Candle)
Go home and live with your pain (No name #1 – Roman Candle)
Home to oblivion (No name #3 – Roman Candle)
Nel 1994 esce Roman Candle, il primo disco di Elliott Smith. In tre forme diverse questo genio della melodia, che non è ancora un nome, ha già guardato questa tristezza in faccia molte volte e prova a prenderci una, due, tre misure. Sa che la misura più grande di lui è il tempo. Ed è nelle frazioni di secondo in cui ti senti troppo male che il tempo ti sfugge. Non pensi certo a scrivere una canzone. Non sei né depresso né felice della tua esistenza. Cercare Elliott Smith nelle canzoni di Elliott Smith ha senso? Come estremo atto di giustizia potremmo pensare che le sue canzoni sono momentanei attimi di equilibrio nel disordine, non una profezia. E questo disordine lo conosciamo tutti. La vita è peggiore della musica, a volte. Qualcuno dirà che a volte è anche migliore. Io dico che a volte basta un attimo e non c’è un modo migliore di un altro per andarsene. La vera tristezza, come tutte le semplici verità, è un lusso. Non è indulgente, non ha a che fare con la comprensione. Diventa bella quando ci solleva da ogni sforzo per cercare di capire. La riconosci perché sei triste, e basta.
Il 25 agosto del 1998 esce XO, quarto album di Elliott Smith. Nel mezzo tra Either/Or e Figure 8, in quei quattro anni di intensa scrittura di musica e parole, XO si chiude con una canzone che dura due minuti e diciassette secondi e che si intitola “I didn’t understand“. Urali l’ha registrata, una notte, creando una meraviglia che potete ascoltare qui: