Speciale Jam Band # Prima Puntata


Il mondo delle jam band è forse uno dei più intrigati
e variopinti di tutto il panorama musicale mondiale, gli stili che lo
compongono sono pressoché infiniti e ogni giorno nasce una nuova
band che presenta una propria peculiarità che la distingue dalle
altre. Capirete che con queste premesse dare un quadro completo del
fenomeno è impresa a dir poco ardua. Noi con questo speciale
ci riproponiamo di fornire una guida di base per coloro i quali sono
completamente o quasi a digiuno di queste sonorità segnalando
le band più importanti , quelle che vengono pressoché
unanimemente riconosciute come “caposcuola” del loro settore
specifico. All’interno dell’articolo troverete molti link
che porteranno a recensioni o speciali passati che con questo tema hanno
legami. Per completezza di informazione vi consiglio di leggere anche
questi articoli in modo di potervi fare una idea il più possibile
precisa del mondo delle jam band e delle sue origini che sono importantissime
per una buona comprensione di questo argomento che, lo ripeto, è
abbastanza intricato.

PREMESSA
Le “jam session” sono da sempre una caratteristica tipica
del jazz: fin dai primi anni ’30 i jazzisti erano soliti ritrovarsi
in modo “informale” nei locali o alle feste e improvvisare
e “duellare” coi loro strumenti all’interno di temi
musicali ben noti a tutti. Col passare degli anni le jam sono state
assorbite prima dal blues e poi dal rock. I primi musicisti facenti
parte a questa seconda categoria a far dell’improvvisazione un
vero credo sono stati i Gratefull Dead.
I
loro chilometrici live erano un continuo susseguirsi di jam che portavano
i brani a superare anche i 30 minuti di durata. Ben presto basandosi
sulla lezione di Garcia e soci tutti gli altri gruppi facenti parte
del movimento psichedelico hanno iniziato a jammare, dando così
a questo nuovo, per il rock, modo di suonare dal vivo una fama mondiale.
La lezione è stata in seguito assorbita anche dai gruppi southern
rock con in testa l’altra grande “jam band” per eccellenza
la Allman Brothers Band. Questa moda è andata avanti fino a quando
con l’esplosione del punk tutto il mondo del rock è stato
rivoltato come un calzino. Va comunque precisato che i Dead e la ABB
non si limitavano però a imitare i jazzisti ma hanno portato
il concetto di jam session ad un livello superiore. Nel jazz le improvvisazioni
erano fino ad allora, costituite principalmente da lunghi assoli strumentali
che mantenevano però una certa coerenza con il brano da cui essi
scaturivano.
Nel rock la cosa ha assunto una forma diversa: innanzi tutto le band
erano solite fondere assieme i temi di due o più canzoni creando
così dei medley jammati, cioè si partiva dalla canzone
X che veniva poi dilatata trasformandosi nella canzone Y per poi ritornare
ancora alla X. Inoltre, soprattutto per merito della ABB, durante una
jam i musicisti erano soliti svariare da un genere musicale all’altro,
ed è proprio questa la grande novità. Si partiva, ad esempio,
da un brano blues per giungere poi ad un tema country , folk oppure
jazz, non disdegnando passaggi fortemente influenzati dalla musica tribale
o da quella orientale, che negli anni 60 era diventata una sorta di
moda, creando così un modo tutto nuovo di concepire il rock.
Il tutto però sempre improvvisato al momento. Spesso magari uno
stessa tema musicale veniva poi eseguito in diverse “chiavi”
musicali, cioè si poteva partire da un brano country trasformandolo
poi all’interno della jam in uno blues o rock. Insomma come avrete
capito allora non esistevano limiti all’inventiva dei gruppi.
Attenzione però le jam session non vanno però confuse
con le “suite” tipiche del progressive: queste ultime erano
delle canzoni molto lunghe , divise in “parti” (l’equivalente
dei capitoli di un libro per intenderci) ma comunque sempre composte
in studio su partiture appositamente scritte non improvvisate. Il musicista
si lanciava magari in lunghi assoli strumentali ma restando sempre fedele
al tema portante del brano e una volta chiuso il suo assolo la canzone
ritornava sui propri passi. Nelle jam session invece succede il contrario
: partendo da una base si può liberamente spaziare in qualsiasi
direzione, anzi la sfida era proprio che una volta che, ad esempio,
il primo chitarrista aveva finito il suo assolo, a cui comunque tutta
la band partecipava “seguendolo”, il secondo continuava
sulla tema proposto dal primo per poi spostarsi a piacimento magari
in una direzione totalmente opposta seguendo il suo istinto del momento.
Avrete certo capito che questo non è un argomento facile, ogni
gruppo aveva delle proprie caratteristiche e “jammava” in
modo proprio. La cosa importante da capire è che alla base di
tutto c’è sempre l’improvvisazione, niente veniva
preparato in anticipo.
Riassumendo: Con il termine jam band si intendono quei gruppi che mischiano
stili e generi differenti basando la loro musica sull’improvvisazione:
come già detto il periodo d’oro delle jam band finisce
con l’avvento del punk. I gusti del pubblico si spostano verso
canzoni corte e facili. Nonostante questo i Gratefull Dead e la ABB
continuano a fare il pieno nei loro concerti anche se in studio non
riescono più a comporre grandi dischi. Per tutti gli anni ’80
rimangono solo queste due band di grande nome a continuare a proporre
questo genere di musica, anche se a livello locale, negli USA, nascono
centinaia di band che ad esse
si ispirano. Dopo le sbronze punk e disco music alla fine degli anni
’80 improvvisamente le jam band tornano “di moda”,
ma con un look tutto nuovo: Sia i Dead che la ABB si muovevano su territori
ben definiti: i primi erano legati alla musica psichedelica per cui
le loro improvvisazioni erano sempre legate ai temi portanti della psichedelia
, mentre i secondi erano la band southern rock per antonomasia. Questo
vuol dire che fino ad allora le jam erano legate ai concetti tipici
di questi due generi musicali che abbiamo già analizzato in precedenti
speciali
. Negli ultimi 10 anni invece il concetto di jam
band ha superato qualsiasi vincolo di genere. Troviamo così band
che si basano sul folk, altre sull’elettronica altre ancora sull’hard
rock, gruppi che usano strumenti elettrici ed altre solo acustici; insomma
il mondo delle jam del nuovo millennio è più variegato
e multicolore che mai, un mondo che cresce a ritmo vertiginoso e che
sta inesorabilmente proponendosi (almeno negli USA) come la nuova frontiera
del rock agli antipodi del mondo di MTV.
Per sottolineare l’enorme successo di pubblico che questo genere
musicale sta ottenendo negli ultimi anni sono stati creati i “Jammin’”
una sorta di oscar della jam music . Tale popolarità è
dovuta principalmente al successo che negli anni hanno riscosso band
come i Phish e la Dave Matthews Band (che andremo a conoscere meglio
nel prossimo episodio di questo speciale) e in tempi più recenti
i Gov’t Mule, questi ultimi trascinati dalla rinascita della Allman
Brothers Band la quale vive oggi una seconda giovinezza ottenendo in
patria un successo forse ancora maggiore rispetto a quello degli anni
’70 come dimostra l’enorme successo ottenuto dal loro ultimo,
splendido, album “Hittin’
TheNote”
. Gran parte del merito di questo va proprio
a Warren Haynes fenomenale chitarrista e vocalist sia della ABB che
dei Gov’t Mule. Come abbiamo già detto quello delle jam
band è un mondo vastissimo fatto di gruppi che nella maggior
parte dei casi si autoproducono e vendono i loro album a livello locale
e durante i concerti, per questo motivo stilare una “mappa”
esauriente del movimento risulta impresa pressoché impossibile:
Possiamo però dare una idea di massima del movimento segnalando
le band più note e quelle più particolari dividendole
per “gruppi”. Questo vuole essere un modo per far conoscere
agli appassionati un mondo nuovo e spesso ignorato sia dai media che
dalla industria discografica, o comunque trattato in modo superficiale.
In realtà questi gruppi hanno, nella maggior parte dei casi,
discografie ampie solitamente incentrate sui dischi dal vivo che rimangono
il modo migliore in cui una jam band può esprimersi. Infatti
come avrete certamente intuito, questo è un fenomeno che ha nella
esibizione live il suo scopo ultimo. E’ un universo molto distante
da quello delle major, un microcosmo in cui le registrazioni”
non ufficiali” sono non solo permesse ma anzi incoraggiate dai
gruppi stessi che in esse trovano un efficace mezzo pubblicitario. Gli
introiti infatti per queste band vengono soprattutto dai concerti, il
lavoro in studio ovviante rimane ma è solo un mezzo per trovare
“finanziatori” per i tour. Di seguito proporremo dei “capitoli”
all’interno dei quali tratteremo ogni segmento del mondo delle
jam band dividendolo in tre grandi gruppi: partiremo con le jam band
classiche, quelle che si ispirano direttamente ai grandi gruppi degli
anni ’70. Poi ci occuperemo delle nuove leve: quei gruppi sorti
sul finire degli anni ’80 che offrono una musica prettamente folk
acustica. Infine analizzeremo le band che presentano l’offerta
musicale più “strana”, gruppi che uniscono una attitudine
elettro-rumoristica al piacere del sano rock improvvisato. Visto che
il panorama dei gruppi da trattare è molto vasto per dare una
informazione più completa ho inoltre deciso di trattare solo
i gruppi “moderni” quelli cioè nati negli ultimi
20-25 anni. Naturalmente vista la vastità del fenomeno questo
speciale non vuole essere esaustivo ma solo una guida introduttiva ad
un mondo quantomai variegato e ricco; per fare questo più che
offrire una minibiografia della band in questione ho preferito inserire
delle minirecensioni dei dischi che ritengo più rappresentativi
per ogni gruppo. Questa scelta è dettata da quello che si diceva
qualche riga sopra: questi gruppi hanno solitamente discografie molto
ampie in cui è facile perdersi per cui a mio avviso è
più utile segnalare per ognuna di esse un album da cui partire
per far la conoscenza con essi. Ovviamente vista la grande quantità
di materiale da trattare le recensioni saranno in forma “pocket”
ma comunque, spero, esaustive.
Buona lettura e, mi auguro, buon divertimento.

I FIGLI DEI DEAD
Come
abbiamo già visto il fenomeno “jam band” nasce nella
seconda metà degli anni ’60 e trova la sua massima espressione
nel decennio successivo. Si pensava che con la crisi degli Allman Bros
e la sparizione dei grandi gruppi southern e psichedelici la voglia
di jammare fosse sparita dal mondo del rock ma fortunatamente non è
stato così.

GOV’T
MULE

Soprattutto negli anni ’90 la voglia di jam è ritornata
più forte che mai e sono nati una moltitudine di gruppi che fanno
riferimento direttamente a Grateful Dead e ABB. Tra tutti il più
influente, in ambito rock – blues – psichedelico al giorno d’oggi
sono sicuramente i Gov’t Mule. Formatisi come costola della nuova
Allman Bros i Muli sono oggi una band vera e assoluti dominatori della
scena jam degli Stati Uniti. I nostri sono un trio formato dal geniale
chitarrista e cantante Warren Haynes, dal batterista, batterista Matt
Abts e dallo scomparso bassista Allen Woody. La band offre una esaltante
miscela di blues, jazz e rock psichedelico della forte impronta hendrixiana,
tutta incentrata sulla magica sei corde di Haynes, sulla sua voce roca
e potente e sulla solidità della sezione ritmica quantomai versatile
e affiatata. Warren è in grado di suonare con disarmante disinvoltura
qualsiasi genere musicale grazie ad uno stile vario influenzato sia
dal blues che dal jazz, raggiungendo livelli entusiasmanti quando si
cimenta alla chitarra slide. Dal 1995 a oggi i Gov’t Mule hanno
sfornato una sequela incredibile di grandi dischi sia in studio che
dal vivo dove i nostri si esaltano offrendo performance dalla lunghezza
chilometrica come da miglior tradizione jammistica. Nel corso dei mesi
passati abbiamo già avuto modo di parlare di alcuni album dei
Muli, in particolare abbiamo analizzato lo stupefacente disco
d’esordio
e il monumentale live The
Deepest End
realizzato dopo la morte di Woody. Per questo
speciale mi sento consigliarvi un altro disco dal vivo dei nostri, si
tratta del
live “Little Help Form Our Friends” nella sua versione
integrale di 4 cd. Registrato la notte di capodanno del 1998 al Roxy
di Atlanta questo live ci da la possibilità di ammirare i Muli
nel loro massimo splendore “jammistico”. Originariamente
il concerto era stato pubblicato in doppio cd a cui aveva fatto seguito
un secondo volume.
Ora si è deciso di raccogliere entrambi gli album in un unico
box set che contiene inoltre una interessante traccia multimediale.
Oltre 4 ore di musica nella miglior tradizione jam, un fiume in piena
in cui blues, rock, jazz e funky si uniscono e si rincorrono tra loro.
Tra i brani migliori segnaliamo la meravigliosa versione di “32-20
blues” di Robert Johnson e poi una strepitosa “Cortez
The Killer”
(Neil Young) della durata di oltre 14 minuti.
E poi ancora riletture splendide di grandi classici come “Spanish
Moon”
dei Little Feat, “War Pigs” dei
Black Sabbath, “Third Stone From The Sun” di Hendrix,
“Sad and Deep As You” dei Traffic, “30
Days in the Hole”
degli Humble Pie per concludere con una
allucinante versione di “Afro Blue” di John Coltrane
che supera i 34 minuti in un delirio di assoli di chitarre, tastiere
e fiati, davvero monumentale. Nel mezzo ci sono i grandi classici a
loro firma come “Mule”, “Thorazine Shuffle”,
“I Shall Return”, “Soul Shine”.
Tutte versioni molto lunghe, oltre i 10 minuti, con jam continue ed
irresistibili. Ad arricchire il tutto una serie di grandi ospiti come
Derek Trucks, seconda chitarra degli ABB, Chuck Leawell alle tastiere,
Marc Ford dei Black Crowes alla chitarra, Jimmy Herring e Randal Bramlet
al sax. Insomma ce ne è davvero per tutti i gusti in questo splendido
disco dal vivo che per attitudine, fantasia e voglia di divertirsi con
la musica è paragonabile ai grandi live album degli anni ’70.
Ma il lavoro del nostro Warren non si esaurisce solo con i Gov’t
Mule e con la ABB, egli è un vero stacanovista della sei corde
e ha una moltitudine di progetti. Tra questi vale la pena segnalare
la collaborazione con un altro “mostro sacro” della jam music
vale a dire l’ex Grateful Dead Phil Lesh. L’ex bassista,
e membro fondatore dei Grateful Dead, ha da tempo messo in piedi un
suo progetto solista denominato Phil Lesh And Frineds col quale ha già
pubblicato due album. Il primo “Love Will See You Through”
del 1999 vedeva la presenza alla chitarra solista di Jorma Kaukonen,
un altro che di jam music se ne intende, ma nonostante un paio di buoni
episodi il lavoro
non riesce a convincere a pieno. Di ben altro spessore è invece
“There and Back Again” del 2002, album in cui milita
il nostro Haynes. Ad accompagnare i due c’è una band di
tutto rispetto formata da Jimmy Herring alla seconda chitarra, John
Molo alla batteria e percussioni e Rob Barraco alle tastiere , tutta
gente che è di casa nell’ambiente della jam music. Il disco
è uno splendido mix di sonorità rock, folk, blues e country
sullo stile dei Dead del secondo periodo con una manciata di canzoni
davvero convincenti come “Night of a Thousand Stars”
, cantata da Haynes come la maggior parte dei brani del disco, dal ritornello
coinvolgente e dagli efficacissimi cori. Molto bella è anche
la lenta “The Real Thing” segnata dalla voce forte
e espressiva di Warren e dal pianismo di Barraco. Molto efficaci anche
la conclusiva “Rock-N-Roll Blues” che a dispetto
del titolo ha una forte tinta funky con percussioni che la portano a
tratti nel reggae, ennesimo esempio delle infinite possibilità
che la jam music offre. In pieno stile Dead è invece “Leave
Me Out of This”
, cantata stavolta da Lesh, una song che
ci starebbe alla perfezione in album come Aoxomoxoa o Grateful Dead,
ma con il piano leggermente più accentuato di quanto non facessero
Garcia e soci, diciamo quasi sullo stile dei Little Feat, altra grandissima
jam band degli anni d’oro. Grazie al successo ottenuto con questo
album Lesh e la sua band hanno girato in lungo e in largo gli States
regalando concerti fantastici tutti incentrati sull’improvvisazione.
Oltre a quella con Phil Lesh Warren Haynes ha avuto moltissime altre
importanti collaborazioni: su tutte vanno citate quelle con i Corrosion
of Conformity nell’album “American Volume Dealer”
e nel live “Live
Volume”
. Di rilievo sono anche le partecipazioni
del nostro ai vari progetti solisti di Les Claypool , leader dei Primus,
e Dickey Betts. Esiste anche una carriera solista del fenomenale Haynes:
essa è iniziata nel 1993 con l’ottimo “Tales
or Ordinary Madness”
un disco ricco di sonorità tipicamente
hard rcok di matrice anni ’70 ma che strizza anche l’occhio
al soul e alla black music in genere come nella splendida “Movers
and Shakers”, dove al chitarrismo del nostro si aggiungono efficaci
cori femminili tipicamente black. Questo è un disco fortemente
segnato anche dall’ampio uso dell’organo hammond che richiama
atmosfere gospel come nella bellissima ballata “Blue Radio”
con la batteria in levare e la voce, molto nera, del nostro davvero
su livelli di pura eccellenza. Molto bella è anche “Invisibile”
un brano tipicamente jam in cui si mischiano il ritmo funky e atmosfere
lievemente mazzate con la slide del nostro tagliente come un rasoio.
Ottime anche “Sister Justice”, con delle sferragliate
chitarristiche che molto “led zeppeliniane” e il solito
retrogusto soul , e la country rock ballad “Angel City”.
Senza poi parlare del rockatissima ballata “Tattoos And Cigarettes”
o del rock blues incendiario di “Power And The Glory”,
tutte canzoni che rendono “Tales…” un disco
di grande livello, mai banale e godibile dall’inizio alla fine.
Questo album mette in mostra anche tutta la duttilità di Warren
Haynes il quale dimostra di essere in grado di suonare praticamente
ogni genere musicale e di trovarsi a suo agio con qualsiasi sound.
Se come abbiamo visto il buon Warren è un musicista dalla incredibile
duttilità; i Gov’t Mule rimangono però un jam band
di chiara ispirazione blues psichedelica nonostante non disdegnino affatto
incursioni in territori jazz e soul e R&B. Un mix classico che si
rifà direttamente al sound dei seventies.

WIDESPREAD PANIC
Se
invece si cerca una band che ha deciso di esplorare nuovi territori
in ambito rock allora fareste bene ad ascoltarvi qualcosa degli Widespread
Panic
. I nostri si formano nella seconda metà degli
anni ’80 in quel di Athens in Georgia. All’inizio la band
è un trio formato dal cantante e chitarrista John Bell, dal chitarrista
Michael Houser e dal incredibile bassista Dave Schools. Ai tre ben presto
si aggiungono il percussionista di origine latine Domingo Ortiz, il
tastierista John “Jolo” Herman e il batterista Todd Nance.
Dopo una gavetta di qualche anno i Panic pubblicano nel 1988 il loro
esordio discografico, autoprodotto, “SpaceWrangler”
a cui fa seguito nel 1991 l’omonimo “Widespread Panic”.
Si tratta di due ottimi album che mettono in mostra tutte le enormi
potenzialità della band. I nostri offrono un caleidoscopio musicale
che ha ben pochi termini paragone nella scena rock degli ultimi 20 anni
unendo in modo incredibile sonorità rock, jazz, latine, country,
blues, funky, southern e chi più ne ha più ne metta. Nei
loro dischi si possono scorgere echi di Santana e degli Allman Bros,
mambo e salsa, James Brown e Grateful Dead, jazz latino e free jazz
alla Coltrane. In passato forse solo i Kaleidoscope, ma con influenze
più orientali, hanno tentato qualcosa di simile. La musica dei
Panic è quantomai varia ma mai disomogenea, questo soprattutto
grazie alla grande abilità della sezione ritmica che è
sempre in grado di spianare la strada alle improvvisazioni di chitarre
e tastiere. Il successo per i nostri arriva nel 1992 quando si uniscono
al festival itinerante H.O.R.D.E. a cui partecipano anche Phish,
Blues Traveler e Black Crowes oltre
ad una altra moltitudine di jam band. E’ proprio grazie ai concerti
che i Panic si fanno una solida reputazione e conquistano sempre nuovi
seguaci creando, negli Usa, un schiera di appassionati simile ai famosi
deadheads che seguivano Garcia e soci. La loro discografia è
molto valida sia in studio che dal vivo ma è proprio in questa
seconda veste, come per tutte le jam band che si rispettino, che i Panic
danno il meglio di loro stessi. Tra i numerosi live album che i nostri
hanno dato alle stampe il più celebre e, a mio avviso, il migliore,
è senza dubbio il doppio “Light
Fuse Get Away”
. Presentato ad Athens nel 1999 davanti ad
oltre 100 000 persone che hanno letteralmente riempito le strade della
cittadina che ha dato i natali anche ai REM, questo live album è
una vera ode alle jam sessions. 19 canzoni tutte molto lunghe per ripercorrere
il meglio del loro repertorio. I Panic danno vita ad un set dalla forza
dirompente in cui i ritmi e gli strumenti si fondono in unica amalgama
sonora tra Little Feat e Santana. La voce roca di Bell e la potenza
della sezione ritmica fanno il paio con il fantasioso suono del piano
in uno stile a cavallo tra New Orleans e southern rock. Tra i classici
della band spiccano i 14 minuti di “Diner” con
percussioni latine e organo hammond a sorreggere le improvvisazioni
di Bell e Houser: la canzone non viene però stravolta ma solo
rivestita con un abito nuovo, mantiene il suo spirito originario ma
cambia solo il modo in cui i nostri ce la mostrano. Schools, vero motore
ritmico del gruppo, martella col suo basso ipnotico preparando il terreno
per gli assoli delle chitarre mentre l’hammond stende il suo tappeto
sonoro che assieme alle percussioni segna tutta la canzone senza mai
farla uscire dalla sua matrice originale. Questo anche quando Bell suona
un assolo nello stile latino di Santana o quando Houser spara una incendiaria
serie di riff quasi hard rock. Questa è una delle caratteristiche
peculiari del suono degli Widespread Panic. La jam non trascende mai
la struttura di base dei singoli brani ma anzi li arricchisce. Ne è
una prova anche la incredibile versione che i nostri ci regalano di
“Pickin’ Up The Pieces” che vede come ospite
d’onore il grande jazzista Branford Marsalis. Il suo sax disegna
note magiche e sensuali duettando alla grande col piano di Jolo e creando
una atmosfera di grande intimità e raffinatezza. Subito dopo
con “Conrad” i Panic cambiano totalmente registro
passando ad un rock granitico e travolgente col basso di Schools che
macina note come uno schiacciasassi e le tastiere in grande evidenze,
fino a sfociare nella jam centrale in cui proprio basso e tastiere danno
vita ad un esaltante duello. Sono presenti nel disco anche due cover:
la prima è una travolgente versione di “Papa Legba”
dei Talking Heads segnata dalle percussioni quasi voodoo e dal solito
immenso basso di Scholls che sorregge la voce davvero molto ispirata
di Bell che assume uno tono cadenzato, quasi ipnotico fino a portare
la song a crescere verso un vero diluvio strumentale che esplode in
un chilometrico assolo di chitarra che è il culmine della jam.
Quasi senza soluzione di continuità si giunge così a “Rebirtha”
dove il piano ci porta in pieno New Orleans sound mentre la voce roca
e indemoniata di Bell e la slide distorta ci mettono un pizzico di delta
blues; il ritmo cresce gli strumenti si fondono, Schools e Nance pestano
come degli ossessi conducendo la jam che vede i numeri funambolici di
chitarre, percussioni e piano. Siamo giunti al fulcro dell’esibizione
che sfocia in un poker da brividi con la serie “Rock”,
“Greta”, “Barstools & Dreamers”,
“Impossibile/Jam” per oltre 40 minuti di puro delirio
jammistico con percussioni e basso che instancabili trascinano e sorreggono
la band nei suoi deliri chitarristici e pianistici intermezzati dal
cantato sempre efficace di Bell. Incredibile come da titolo “Impossibile/
jam”
con assoli di percussioni, il basso e le tastiere che
si uniscono in un unico granitico muro sonoro, con cambi di tempo, pause
e ripartenze continue per una incredibile e colorata festa della musica
al di là di ogni genere e confine musicale giungendo al duetto
mozzafiato tra la batteria di Nance e le percussioni di Ortiz che ci
rimandano direttamente ai confini con l’africa. Questo album trasuda
rock da tutti i pori, basta sentire il calore del pubblico che accoglie
con vere e proprie ovazioni le invenzioni dei suoi beniamini. “Light
Fuse Get Away”
è un disco da ascoltare centinaia di
volte perché ad ogni passaggio rileva nuove incredibili sorprese,
un disco indispensabile per assaporare la vera essenza della jam music
moderna.

BLUES TRAVELER
Come
detto nella parte introduttiva il mondo delle jam band è enormemente
vario, ogni gruppo ha il proprio sound e le proprie peculiarità;
tra queste si fa notare una delle band cardine della rinascita di questo
fenomeno musicale: i Blues Traveler. La band si forma
intorno alla fine degli anni ’80 in quel di New York; suo leader
indiscusso è il corpulento cantante e armonicista John Popper
cui si aggiungono il batterista e percussionista Brendan Hill, il chitarrista
Chan Kinchla e il bassista Bob Sheehan. La loro proposta sonora è
abbastanza particolare nell’ambito delle jam band essendo essa
tutta incentrata sui virtuosismi dell’armonica di Popper relegando
la chitarra, strumento principe del rock in generale, al ruolo di accompagnamento
ritmico. John si rivela essere un cantante, musicista e compositore
di grande caratura e sul palco un leader carismatico in grado di trascinare
il pubblico e di sorprenderlo con continue evoluzioni al piccolo strumento.
L’esordio dei nostri avviene nel 1990 con l’omonimo album
autoprodotto. “Blues Traveler” risulta essere un
disco di ottimo spessore offrendo una esplosiva miscela di rock, blues
e soul accompagnato da un forte senso della melodia e una innata capacità
di improvvisazione. I nostri si fanno subito notare all’interno
della scena dei club della “grande mela” e diventano in
fretta i trascinatori della nuova generazione di rocker americani. Dopo
meno di un anno Popper ha la geniale idea di fondare H.O.R.D.E. un festival
itinerante dedicato al rock alternativo e underground in chiara contrapposizione
al Lollapalooza considerato proprietà assoluta del music businnes.
La trovata si rivela quantomai vincente visto che da questo festival
usciranno i nomi più importanti di tutta la scena jam americana:
Widespread Panic, Phish, Dave
Matthews Band
, Spin Doctors sono i nomi di
più noti che grazie all’idea di Popper conquistano una
inaspettata popolarità. Nel contempo anche i Blues Traveler ottengono
un discreto successo pubblicando una serie di buoni album tra cui spicca
il doppio live “Live From the Fall” del 1996 successivo
al primo grande successo commerciale di Popper e soci che arriva con
l’album “Four” trascinato dai singoli “Hook”
e “Run Around” che gli permettono di vendere oltre
6 milioni di copie. Di questo pluripremiato album vale la pena anche
segnalare la splendida “Crash Burn” brano dai ritmi
sincopati in cui tutta la band gira davvero a mille. Ma il vero capolavoro
del gruppo arriva l’anno successivo con il bellissimo “Straight
on Till Morning”
: in questo album finalmente i nostri riescono
a portare in studio quella irresistibile vena jam che da sempre li caratterizza
dal vivo. L’album risulta così fluido e omogeneo, i toni
si smorzano un pochino rispetto agli esordi decisamente più hard,
ma il lavoro ne guadagna sia dal punto di vista del ritmo che della
spontaneità. Tutto questo unito alle solite godibili melodie
e ai numeri dell’armonica di Popper forma un mix davvero vincente.
“Straight On ..” è un piccolo contenitore
di gioiellini dalla bellezza cristallina come la stupefacente ballata
“Canadian Rose” che mischia un vago sapore country
con accenni cajun, il ritornello killer e la solita grande irresistibile
melodia fanno il resto confezionando un brano di classe sopraffina come
il riff dell’armonica di John. Assolutamente imperdibile anche
l’opener “Carolina Blues” che inizia con una
chitarra quasi hard che viene subito doppiata dall’armonica graffiante
ed indiavolata di John. Un rock blues incendiario, ma arricchito di
quel pizzico di sana melodia che è il marchio di fabbrica dei
nostri. Grandiosa anche “Businnes And Usual” brano
dal ritmo funkeggiante, quasi rappato da Popper, che poi esplode in
un ritornello di pura dinamite rock. Tutta la versatilità dei
Blues Traveler la si può apprezzare nella romantica ballata “Yours”
con un efficace arrangiamento d’archi che sorregge l’armonica
del leader. In “Great Big World” a farla da padrone
è il basso funk del compianto Bob Sheehan mentre Popper canta
da par suo. I nostri si concedono anche un’altra slow ballad la
leggiadra “The Gunfighter” segnata dai repentini
cambi di tempo. “Last Night Dreamed” inserisce
invece elementi caraibici “sporcando” il blues e il funk
con i colori della salsa e del mambo che portano ad una bella jam centrale.
Ma in “Straight On Till Morning” c’è
molto altro: la lunga, quasi 8 minuti, e bluesata “Make My
Way”
o la trascinante “Felicia”. Questo
è un album di grande gusto, che non ha paura di strizzare l’occhio
a sonorità “facili” ma mai banali, sempre pregne
del sano gusto dell’improvvisazione e del ritmo.

PHISH
Abbiamo
visto diversi modi per intendere il suono jam, da quello più
blues rock dei Gov’t Mule a quello dalle forti influenze latine
degli Widespread Panic per giungere alle melodie più pop dei
Blues Traveler. Esiste però una band che difficilmente può
essere catalogabile, è il gruppo che forse più di ogni
altro rappresenta la totalità e l’imprevedibilità
della jam music; una band che quanto a genio e ad abilità di
improvvisazione non teme confronti e per questo è diventata l’icona
delle jam band del nuovo millennio. Per chi ancora non lo avesse capito
sto parlando dei fenomenali Phish. Formatisi, come
le altre band cardine del movimento, verso la metà degli anni
’80, i nostri da oltre 15 anni danno a tutti, o quasi, lezioni
di come si improvvisa sia in studio che dal vivo e di come si possa
creare una offerta musicale sempre nuova e varia senza mai autoreciclarsi
ma puntando su un polistilismo a 360°. I Phish sono il prototipo
della jam band; lo sono sia dal punto di vista musicale sia da quello
pubblico \ privato. Non registrano video, non vanno nelle radio o nelle
tv per promuovere tour e album, hanno un pessimo rapporto con le case
discografiche dalle quali rifiutano ogni forma di promozione pubblicitaria.
Nessuno di loro ha un look particolare o si atteggia a star, non fanno
proclami politici e non danno modo alla stampa scandalistica di parlare
di loro e nelle rare interviste parlano esclusivamente di musica. I
Phish semplicemente suonano e lo fanno alla grande. Ma anche qui sono
abbastanza fuori dall’ordinario. Sono musicisti fenomenali ma
non si mettono in mostra, gli assoli sono sempre al servizio della jam,
o della canzone, mai una esibizione personale perché la forza
del gruppo sta proprio in quell’incredibile e indescrivibile amalgama
di suoni e di ritmi che i nostri riescono a creare. A proposito per
chi non lo sapesse i nostri si chiamano Trey Anastasio chitarrista cantante
e mente pensante della band, Page Mc Connel tastiere e voce, Mike Gordon
basso e voce, John “Fish” Fishamn batteria e voce. Da sempre
i Phish riscuotono un enorme successo nei loro concerti ma la stampa
specializzata americana li ha sempre ignorati. I loro album sono uno
più bello dell’altro ma vengono semplicemente rilegati
come buoni dischi di una buona jam band. Questo almeno fino a qualche
anno fa. Ad un certo punto anche il giornalista o la rivista più
servile al potere del music biz ha dovuto arrendersi quando i nostri
facevano concerti con 60/70.000 spettatori a volta e interi tour che
sfioravano il milione. Solo allora molti si sono rimangiati le proprie
parole e hanno dato alla band di Anastasio quel che si merita. Nel corso
di questo speciale vi ho parlato delle band più note del movimento
jam e per ognuna di loro ho recensito il disco che mi sembrava più
rappresentativo o che quantomeno, a mio modo di vedere, dava l’idea
più chiara della musica che la band in questione offre. Volevo
farlo anche coi Phish e mi sono messo li a guardare i loro cd, a far
scorrere le track list, li ho ascoltatimi alla fine ho rinunciato. La
loro musica è troppo varia per poter essere descritta con un
solo disco. I nostri da un album all’altro cambiano totalmente
registro e lo stesso fanno nei dischi dal vivo, per renderci conto di
questo basta ascoltare le parole del bassista Mike Gordon: “Suoniamo
bluegrass, latino, rock, funk, classica, jazz, calypso e hardcore. Ah
sì, anche un po’ di musical di Broadway !”
.
Io ci aggiungerei anche una spolverata di hip hop, quello più
sperimentale degli ultimi Beastie Boys gruppo che i nostri ammirano
molto, un pochettino di blues e di country e una spolverata di psichedelia
e progressive. Prendiamo ad esempio i recenti “Live Phish”,
in particolare i volumi che vanno dal 13 al 16: sono 4 cd ognuno dei
quali rappresenta un omaggio ad una band che i nostri hanno particolarmente
amato: Così ne troviamo uno in cui rifanno, dal vivo, il “White
Album”
dei Beatles, un altro in cui interpretano solo brani
di “Loaded” dei Velvet, un altro ancora dedicato
ai Talking Heads e al loro splendido “Remain In Light”
e poi un quarto dove i nostri si dedicano a “Quadrophenia”
degli Who. Gli altri dischi dal vivo sono altrettanto intricati
perché a seconda della serata in cui si trovano i Phish suonano
in un determinato modo. La musica dei nostri è talmente unica
che difficilmente trova riscontri sia nel passato che nel presente.
Loro improvvisano ma lo fanno in un modo del tutto particolare: per
intenderci non jammano come facevano i Dead che seguivano l’istinto
del momento che poteva portarli in qualsiasi direzione possibile ma
lo fanno all’interno di regole ben precise, regole variabili certo
ma comunque decise a priori a seconda del caso, Ne risulta così
che se ad esempio durante un concerto della band di Garcia o degli ABB
capita, o capitava, spesso che qualche ospite salisse sul palco senza
nessun, o quasi preavviso, per jammare con loro ottenendo ottimi risultati
questo coi Phish non sarebbe possibile proprio perché ogni jam
dei nostri segue una perfetta linea logica che solo la band conosce.
In questa loro peculiarità incidono molto le influenze musicali
dei vari musicisti. Ad esempio Page McConnell, il pianista, è
un amante della musica di Bill Evans e di Duke Ellington, il batterista
Jon Fishman è un grande fan del “maestro”
Frank Zappa, Mike Gordon ama alla follia il bluegrass mentre Anastasio
ha un forte amore per il jazz in generale e per la musica classica.
Ne esce così un modo di improvvisare si debitore a quello idiomatico
del jazz ma anche alle “motivic variations” tipiche
di musicisti come Sonny Rollins, di cui Anastasio è un grande
ammiratore. Nel loro improvvisare si nota un ampio uso di variazioni
che porta alla mente “L’Arte Della Fuga”,
la grande opera incompiuta di Bach, per come essi sanno muovere le dimensioni
mobili all’interno del brano stesso. Durante le improvvisazioni ogni
membro della band è strettamente legato agli altri, nei Phish
non succede che ad esempio la chitarra improvvisa e gli altri strumenti
mantengono l’ossatura del brano; essi si muovono tutti all’unisono
per loro non esiste la formula del solista, il che non esclude certo
gli assoli. Con queste premesse recensire un loro live album sembrerebbe
la scelta migliore visto che i Phish dal vivo sono a dir poco eccezionali,
basti pensare ad esempio che nel 1999 nella notte di capodanno in Florida
hanno suonato per oltre 8 ore davanti ad 80.000 persone. Invece purtroppo
non è così perché anche dal vivo i nostri sanno
offrire facce diversissime della loro opera a seconda del momento e
della serata. Tanto per intenderci i nostri sono soliti lanciare dei
palloni tra il pubblico e a seconda di come essi rimbalzeranno loro
decideranno in che modo suonare. Dal vivo per i Phish non esistono le
scalette, tutto è lasciato al momento tale e tanta è ormai
l’affinità tra i musicisti. Ho deciso allora di parlarvi,
purtroppo in modo più breve rispetto agli altri dischi recensiti
fino ad ora, degli album che a mio avviso sono più rappresentativi
dei vari momenti sonori del gruppo. Partiamo perciò dall’inizio
da quel “Junta”, autoprodotto, del 1988 (poi ripubblicato
nel 1992 in doppio cd) che è stato l’esordio discografico
dei nostri. Certamente miglior biglietto di presentazione non poteva
esserci. In questo strepitoso album troviamo i ritmi ossessivi e martellanti
di “David Bowie”, l’inquietante “Fee”
cantata al megafono, la lunghissima jam “Union Federal”.
Junta è un disco ancora acerbo ma già in esso possiamo
notare la predilezione dei nostri per la musica d’insieme. In
questo album troviamo inoltre alcuni dei brani che sono poi diventati
standard dei loro torrenziali concerti: canzoni come “The
Divided Sky”
o “You Enjoy Myself”, il
tutto con una lieve vena progressive guardata però dal punto
di vista del rock americano. Nel 1990 esce “Law Boy”
uno dei dischi più controversi di Anastasio e soci, per alcuni,
compreso chi scrive, è uno dei loro album più belli di
sempre, per altri si tratta di un mezzo passo falso. Questo d’altronde
è il destino di una band come i Phish: dividere sempre la critica.
Resta però il fatto che le 9 song contenute in questo album
col tempo sono diventate dei classici del gruppo eseguiti nella stragrande
maggioranza dei loro concerti e amatissimi dal loro pubblico. La fantasia
dei Phish si esprime in tutto il suo splendore e Anastasio in questo
album assume sempre più il ruolo di leader della band. In particolare
in alcuni brani il nostro comincia a mostrare il suo tipico modo di
suonare ottenuto tramite un fraseggio in bilico tra jazz, rock, con
ampio uso di distorsioni e feed back, e classico esaltato dall’impiego
di una chitarra artigianale costruita appositamente per lui da Paul
Languedoc, tecnico del suono della band, e dall’impiego di mesa
boogie. Tra le song spiccano in particolar modo “The Squring
Coil”
con il piano di matrice classica in grande evidenza,
“Reba” dall’andatura molto particolare, quasi
da filastrocca swingata. “Run Like An Antilope”
dove la chitarra di Trey gioca il ruolo di protagonista assoluta: questo
brano è un geniale strumentale che passa con disarmante disinvoltura
da un inizio tranquillo al tempo di swing a un torrenziale rock psichedelico.

Non dimentichiamo però brani come “Split Open And Melt”
con i suoi accenti funky e “Bouncing Around The Room”
molto melodica con echi sia di Beatles che di Grateful Dead. Due anni
dopo, nel 1992, è la volta di un altro capolavoro, lo stupefacente
“A Picture Of Nectar”. I Phish continuano nella
loro crescita verso una musica sempre più “totale”.
Dopo il funky e lo swing di “Lawn Boy” è
ora la volta
della musica latina. Le 16 canzoni che vanno a comporre questo album
sono tutte incredibilmente affascinanti passando dalle due incredibili
versioni di “Tweezer”, la prima di quasi 9 minuti
con piano e basso sugli scudi a dare un andamento quasi ipnotico e i
soliti cori di matrice anglosassone che cercano quasi di sviare l’ascoltatore
dall’ intricatissimo svolgimento sonoro del brano. La componente
latina salta fuori con grande evidenza nel super classico “Stash”
e la travolgente e super ritmata “Cavern” dove
è in grande risalto l’ampio uso di organo hammond. Da notare
anche la scheggia impazzita, 29 secondi, di “Manteca”
sentito omaggio a Dizzy Gillespie. “A Picture of Nectar”
è uno straordinario contenitore di grande canzoni ognuna delle
quali meriterebbe una ampia analisi per la grande varietà di
soluzioni sonore utilizzate dai Phish come ad esempio la splendida improvvisazione
di “Guelah Papyrus” che tra feedback e ritmi funky
sa incantare ad ogni ascolto anche grazie al gradevolissimo ritornello.
Che dire poi del texas swing di “Poor Heart” o
dei suoni R&B distorti di “Chalkdust Torture”
o ancora della dolcissima “Faht” che inizia con
una lieve chitarra acustica a cui si aggiungono in sottofondo i rumori
di un bosco tra canti di uccellini e il vento che soffia tra i rami,
creando una sorta dia atmosfera new age; poi la chitarra sparisce ai
rumori della natura si aggiungono quelli del traffico cittadino che
confluiscono direttamente nei 30 secondi di “Catapult”
praticamente solo la voce filtrata di Anastasio. Questo è un
disco straordinario che esalta il genio dei Phish consegnandoci un piccolo
gioiello di polistilismo sonoro. A questo capolavoro fanno seguito due
album abbastanza controversi: il concept fantasy gotico “Rift”
e il super arrangiato “Hoist” dove fiati e archi
rendono il suono della band forse un po’ troppo pomposo. Le trovate
geniali non mancano di certo in nessuno dei due album ma il risultato
è forse inferiore a quello dei precedenti lavori in studio. Nel
frattempo la popolarità della band è in forte ascesa soprattutto
grazie ai loro straordinari concerti. Probabilmente però Anastasio
, che, vale la pena sottolinearlo, è l’autore praticamente
del 90% delle canzoni della band, si accorge che qualcosa comincia a
non funzionare più a dovere. I due ultimi album hanno entrambi
il sapore del lavoro incompiuto, del capolavoro mancato nonostante entrambi
contengano momenti di grande musica come ad esempio “Fast
Enough For You”
e la title track di Rift o “Down
With Desease”
e “Lifeboy” su Hoist. Questa
consapevolezza
spinge il nostro a cambiare rotta per il successivo “Billy
Breathes”
, nel mezzo c’era stato anche l’ottimo
doppio live “A Live One”, disco composto più
che altro da canzoni molto corte, nell’eccezione della band ovviamente,
visto che si segnalano solo 3 brani su 15 che superano i 5 minuti. Il
risultato è comunque notevolissimo. Rispetto ai lavori precedenti
la band da la netta sensazione di saper bene cosa vuole e di riuscire
ad ottenerlo, Alcuni hanno intravisto in questo album il primo passo
indietro di Anastasio e soci che per la prima volta non hanno proseguito
nella sperimentazione di sempre nuove soluzioni. Personalmente non sono
d’accordo con questa teoria; io vedo “Billy Breathes”
come un grosso salto in avanti perché Trey con questo disco dimostra
di avere capito quale sia la direzione giusta da prendere e su questa
strada fa crescere il suono del suo gruppo. Perle come “Taste”
con il suo irresistibile incedere dai sapori quasi orientali con ritmi
che si intrecciano in maniera vorticosa, sono tra le cose più
belle che il nostro abbia mai scritto. In questo album sono presenti
anche delle splendide ballate acustiche come “Swept Away”
con Anstasio che si dimostra cantante di grande valore in grado di strappare
emozioni a non finire, o come “Waste” straordinaria
ballad onirica e crepuscolare. Il colpo di genio è la jammata
“Theme from the Bottom” che esalta la grande creatività
del gruppo e la sua capacità di muoversi all’unisono. Troviamo
anche momenti di grande forza come “Free” o “Prince
Caspian”
che inizia lenta con un rumore quasi di bolle che
lascia spazio prima al piano presto doppiato dalla chitarra e poi da
tutta la sezione ritmica e la canzone prende il volo. I Phish con questo
strepitoso lavoro mettono un ennesimo tassello nella costruzione del
rock del nuovo millennio dando alle stampe un disco che definirei seminale.
Per chi volesse ascoltare i nostri dal vivo consiglio il monumentale
live , 6 cd, “Hampton Comes Alive” anche se forse
sarebbe meglio ascoltare prima i lavori in studio.
Naturalmente il mondo delle jam band non si esaurisce con i gruppi che
abbiamo fino ad ora conosciuto: Ce ne sarebbero molti altri che meriterebbero
spazio tra queste righe ma purtroppo ho dovuto compiere una scelta.
Nonostante ciò a fianco troverete un elenco dei dischi che ritengo
più rappresentativi dei gruppi che qui non hanno avuto spazio.
Sperando con questo di darvi ulteriore materiale per conoscere bene
questo straordinario universo musicale. Credo però che i gruppi
di cui abbiamo parlato in queste pagine possano ben rappresentare l’attuale
scena jam americana. Naturalmente sto parlando di quella più
classica legata cioè al rock. Sono gruppi che non si sono limitati
a copiare le band madri del genere ma che hanno contribuito con la loro
fantasia e la loro abilità a far crescere il rock e a fargli
prendere nuove strade; o meglio che hanno saputo continuare in quella
strada di innovazione e sperimentazione su cui si erano incamminati
35 anni fa i loro eroi che vale la pena ricordarlo non sono solo ABB
e Grateful Dead ma anche Little Feat, Marshal Tucker Band, ma in un
certo senso anche i Kaleidoscope. La prima puntata del nostro speciale
finisce qui. Nei prossimi episodi consoceremo altre nuove incredibili
e fantasiose jam band nel frattempo buon ascolto a tutti.

DISCOGRAFIA
ESSENZIALE

I
titoli riportati di seguito sono gli album che ritengo più
rappresentativi di quelle band che per motivi di spazio non
abbiamo incluso nello speciale vero e Proprio. Attenzione non
si tratta di gruppi di serie B ma solitamente di band che rispetto
a quelle da noi citate hanno avuto minor successo e minor influenza
. Tra i fattori che motivano questa mia scelta c’è
anche la reperibilità dei dischi in questione, quelli
citati nello speciale ,proprio perché di gruppi che godono
di una certa notorietà, sono molto più facilmente
reperibili nei negozi rispetto a quelli qui citati per i quali,
purtroppo, si è quasi obbligati a rivolgersi al commercio
su internet. Si tratta comunque di ottimi dischi che vale decisamente
la pena ascoltare:

Spin
Doctors

_Pocket
Full of Kryptonite

moe.
_Tin Cans
and Car Tires

God Street Wine
_$1.99
Romances

The Screamin’ Cheetah Wheelies
_The Screamin’
Cheetah Wheelies

Big
Head Todd & the Monsters

_Sister
Sweetly

Rusted Root
_Remember

Everything
_Labrador

Train
_My Private
Nation

The Other Ones

(super band formata dai Grateful Dead con prestigiosi ospiti)


_The Strange
Remain

The Samples
_Transmissions
from the Sea of Tranquility [live]

Allgood
_Kickin’
& Screamin’ [live]

Pat McGee Band
_Shine

The Ominous Seapods
_Matinee
Idols: Late Show [live]

The Hatters
_The Madcap
Adventures of the Avocado Overload

Gathering Field
_Lost
in America

Running with Sally
_First
Sally

Hootie & the Blowfish
_Cracked
Rear View