Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
30/10/1992 | Atlantic | stp.com |
Cosa mancava per rendere più completa la “babilonia sonora” della generazione X tra i fine 80 e i primi 90? “Nevermind” il suo manifesto, “Ten” il suo antagonista meno confuso e contorto: insieme esaltazione e magnificazione di un Rock che fino a qualche anno prima compariva su tutti i necrologi, riportato in vita più rabbioso e insolente di prima.
Eppure qualcuno ancora mancava all’appello durante lo svolgimento di questo ardente simposio. Nel ’92 quel quid arrivò direttamente da San Diego, quando sul treno in corsa del grunge ci salirono anche gli Stone Temple Pilots con “Core”. Su quel treno loro ci salirono con soluzioni artistiche diverse dallo stereotipo delle band di Seattle e con un’aria più superba e sprezzante nei confronti dei colleghi depressi, impegnati ad esprimere pessimismo cosmico. Insomma, i fratelli maggiori che avevano superato il disagio e la rabbia adolescenziale prima che il grunge diventasse commercio. In questo modo apparentemente indipendente e originale offrirono alle orecchie insaziabili degli ascoltatori un disco che non a caso come prima accezione indica il centro, il cuore, l’anima di un metallo. Ed è proprio con il metal che si affacciarono allo stardom internazionale i quattro “piloti del tempio di pietra”. Un metal più raffinato e signorile che non colpiva solo l’attenzione degli irriducibili ragazzacci tutti pelle e borchie, appunto perché meno aspro, più accessibile e meno incattivito rispetto al materiale trash a cui ci avevano abituati gli antesignani Metallica & soci.
La perfetta miscela tra “Dirt” e il “Black Album”. L’esatta mescolanza di sostanze neurotoniche e tranquillanti allo stesso tempo, passando dall’adrenalina pura di “Sex Type Thing”, dal contenuto fortemente cinico e anche un po’ misogino, all’accorata melodia strappalacrime di “Creep”, ballata vellutata carica di pathos, che ad ogni ascolto riesce sempre a far salire un brivido su per la schiena e che insieme a “Plush” , geniale invenzione dalla sconfinata potenza sonora, ci toglie facilmente il respiro. Per poi pensare a brani come “Wicked Garden” e “Piece Of Pie”, venuti alla luce perché Weiland e compagni si sono rivolti alla stessa musa ispiratrice di Soungarden, Alice in Chains e Nirvana.
Altri dettagli doverosi? Una voce conturbante e minacciosa che rispecchia in tutto e per tutto la personalità inquieta del vocalist, da sempre corrotto dalla droga e dai continui problemi con la legge. Infine la chitarra dei DeLeo, con riff lenti e possenti e con sezioni ritmiche incendiarie. Una perla aggiunta per tutti coloro che da quella babilonia sono stati piacevolmente travolti, ed oggi ricordano malinconicamente un passato che lascia l’amaro in bocca.