Sgranocchiando una carota, ed incappando alla radio per l’ennesima volta, senza riuscire a schivarla in tempo, nella famigerata cover di Creep di Vasco, mi è venuto in mente come il rapporto che hanno gli artisti con le cover sia cambiato da un po’ di tempo a questa parte.
Riflettendoci, mi viene da pensare che una volta la scelta della cover cadesse su brani che per l’artista significassero qualcosa di speciale, un modo per farli propri, per rendere omaggio all’autore di quella canzone che ha regalato al mondo quei tre minuti circa di felicità in più.
Adesso sembra invece che la tendenza vada decisamente sul trash e che si scelga la cover fra i brani più conosciuti e commerciali del mondo, essenzialmente credo per poter comparire sulle ricerche di Youtube e raccattare click. E poi oltretutto vengono a raccontarci con la faccia da culo la solita scusa della “versione ironica del pezzo, una rivisitazione beffarda”.
Già faccio fatica a digerire i Ministri che coverizzano i Pooh (eh, la band di punta della nuova musica italiana. Sembrerebbero i Pooh in questo caso…) ed i tanti altri artisti in continua carenza di idee ed attaccamento alla sottana della triste tradizione della canzonetta italiana, che continuano ad attingere a piene mani dai nostri artisti paleolitici, ma dover subire la rivisitazione di brani che rappresentano il peggio della discografia straniera lo vedo come un affronto. Britney Spears, Macy Gray, The Fratellis, Ace of Base, Moonlight Shadow di Mike Oldfield sono cose che già producono danni all’ascolto nella versione originale, non vedo perché artisti che dovrebbero proporre l’alternativa a tutto questo invece ci sguazzino dentro. E allora vuol dire che quel passo avanti, proprio non si riesce a farlo. O piuttosto non si vuole.
Primi della tornata odierna sono i Venus in Drops da Palermo, che ci presentano questo Ep dal titolo The First Genesis of the Animals. All’ascolto, li trovo un perfetto connubio fra l’intenzione più moderna della wave e una certa radiofonicità a cavallo fra la fine degli anni ’90 ed il 2000. Fossero un po’ più oscuri sarebbero i White Lies (e Rotten Apples ne è un ottimo esempio), fossero sfacciatamente più radiofonici li troverei per certi versi simili ai Keane o ai Travis (sto parlando delle melodie, per meglio intenderci, e non del sound, anche se la perenne spennellatura all’inglese pervade tutto il lavoro, tant’è che la title track ne è un degno esempio). Atmosfere ovattate (accentuate oltretutto da una produzione molto cupa, perché?), Lucy was in the stars è il proseguimento naturale del primo brano del cd, un brano soffice e ben scritto. Nei brani che seguono si capisce piuttosto che il nocciolo duro della band non sono le chitarre, quanto il synth, per cui si arriva a lidi battuti già da tempo da grandi nomi come Depeche Mode (e un brano come So Many Times, il più fiacco del cd, non aggiunge nulla di quello che può essere stato già suonato in precedenza da band appartenenti allo stesso genere). Nota di plauso: le parti del basso sono quelle che riescono a reggere i brani nelle lunghe strofe: senza di quelle le canzoni risulterebbero davvero poco sostenibili, quindi complimenti al lavoro del bassista. Nel complesso questo è il lavoro di una band che mostra di saper scrivere e suonare canzoni che sono buone, quello che manca veramente è un certo appeal che faccia da vero traino per il pubblico che potrebbero meritarsi.
Passiamo agli Aim, dalla Brianza, trio che si cimenta in questo album dal titolo We Are Sailing. A dispetto del titolo in inglese in realtà il cd presenta sia brani in italiano che in inglese e musicalmente si naviga a vista su oceani che la band non sembra pronta ad affrontare come trio (anche se altre bands, come i Ministri, in effetti ci riescono) . Mi spiego meglio: la formazione a tre non sembra decisamente adatta per poter maneggiare dei brani che per la loro scrittura necessitano di strumenti addizionali, ma soprattutto di più parti suonate e di molta più cura negli arrangiamenti. Anche i brani più veloci, come Reverse e Holy Day, che hanno per certi versi anche un’attitudine danzereccia, stando a sentire l’intenzione della batteria, alla fine risultano troppo seduti, ed una chitarra sola non ce la fa a spingere il brano dove dovrebbe andare, così come non aiuta il basso, che non propone particolari movimenti e si limita all’accompagnamento in ottavi. Il nemico in casa, primo brano in italiano che troviamo lungo il percorso, non differisce dai precedenti, ma almeno ha il pregio di essere appunto in madrelingua e riesce a mantenere l’attenzione più viva all’ascolto. Come Se, invece è il brano meno riuscito del cd: è sottile la differenza fra un approccio emozionale al brano e una lagna lamentosa, così non va. Al contrario invece Solaris è il brano migliore, soprattutto nel passaggio al ritornello, una variazione radiofonica – ma non sputtanata – che non ti aspetti, a me ha ricordato per certi versi 1979 degli Smashing Pumpkins. In Tre invece è un brano che ha una forte similarità con chi ha messo lo zampino nella produzione (andate a leggere i crediti per capire), ma decisamente non ha saputo risollevare le sorti di questo album. Non sto qui a dire che gli Aim non siano una buona band, perché ciò non è assolutamente vero: piuttosto non sembrano affatto maturi né dal punto di vista degli arrangiamenti, né riescono a trasmettere l’energia di quelle band con l’attitudine degli “animali da palco” e perciò rimangono così, un po’ incompleti.
Per concludere ci sono i Tilt, emiliani, che presentano L’Evoluzione delle Ombre.
Avvertenze: quella che segue è la cronaca dei fatti realmente accaduti.
Inserito nel lettore il cd in questione ed infilato le cuffie in testa, verso il terzo brano mi è balenato nella mente un pensiero che più o meno faceva così: “Ammazza ma quanto assomigliano agli Elizabeth questi qui” ( N.d.A: chi volesse sapere di chi sto parlando rimando i lettori al Democrazia #8).
Lo scontatissimo colpo di scena è andare a scoprire, alla fine dell’ascolto, che con gli Elizabeth questi Tilt condividono dei membri musicisti. Ora, io non voglio essere cattivo, né voglio andare a scoprire la perversione che porta alcuni musicisti ad avere due band che fanno esattamente la stessa cosa, ma se proprio volete la mia opinione sulla musica dei Tilt, basta andare nella puntata succitata di questa rubrica e cambiare il nome della band: il risultato alla fine non cambia, le emozioni suscitate sono state esattamente le stesse.
….ma non è finita qui! Perché a grande richiesta del pubblico, ma soprattutto delle bands che ci seguono ed apprezzano il nostro lavoro di recensori severi ma giusti (anche se politicamente scorretti a fin di bene), abbiamo deciso di rinforzare la squadra di questa nostra Democrazia. Da questo mese le recensioni diventeranno ben cinque, con l’aiuto del collega Paolo Viscardi, a cui passo sottobanco un po’ del materiale che riceviamo.
Psiker – “Genial” – Il milanese Psiker è cresciuto a base di eurodance e discoteche della domenica pomeriggio. Ma non tutti possono essere Haddaway, né Robert Miles, più facile diventare una sorta di Allevi digitale mixato con cantati da rock band italiana di fine anni 80 e testi oltre il muro del lulz non voluto. Salvare qualcosa tra queste 11 tracce è davvero dura. La cosa migliore si legge sul comunicato stampa “Ha pubblicato con la Universo (Lunapop, Zeroassoluto, Checco Zalone…) il suo primo album LOGIC (2008)”….
Playontape – “A place to hide” – Editor e Interpol i riferimenti non tanto nascosti di questa band salentina che nei 9 pezzi di debutto di “A place to hide” infila qualsiasi cliché post-punk/new wave possibile, ovvio vocione del cantante compreso, ma riuscendo a giocarci in maniera quantomeno piacevole (nella title-track e in Ghost train, ad esempio). Per ora rimane un lavoro solamente dedicato agli amanti del genere.