Bon Iver @ Alcatraz (Milano) – 30/12/2012

Attitudine e Visual: Appena entrati all’Alcatraz la scenografia da “Robinson Crusoe” salta subito all’occhio. “Stracci” di juta appesi dappertutto sui quali verranno proiettati dei visual, e delle specie di “lampade votive” che contribuiscono a donare al palco un’atmosfera suggestiva ed elegiaca. La controparte visiva di uno spettacolo sonoro che mischia generi, atmosfere e riferimenti  in modo talmente compatto e coerente da non darlo neanche a vedere.
Ma rimanendo al lato strettamente estetico, Justin Vernon sale sul palco con il suo solito stile “casual-trasandato”, stavolta abbandona la coppola di lana in favore di una specie di sottile bandana da soldato impazzito, stile “Il cacciatore”. Il resto della band segue, più o meno, il suo trend. Sul palco doppia batteria (che ormai se non ce l’hai non sei nessuno), violini, fiati, tastiere e percussioni. L’impressione è quella di avere sul palco una versione ipertecnica e superpotenziata degli Arcade Fire.
Da segnalare in apertura il concerto delle The Staves, tre sorelle super-folk che hanno impressionato per la tecnica vocale (armonizzazioni e unisoni da far impallidire qualsiasi gruppo vocale di X Factor), ma che alla lunga hanno pagato la mancanza di melodie veramente convincenti.

Audio: L’acustica dell’Alcatraz appare convincente, nessuna pecca da segnalare, un concerto perfetto soprattutto nelle note basse, coinvolgenti le ritmiche delle due batterie, tutto acquista la giusta “pasta” sonora. Se tutti i concerti fossero così non ci sarebbe neanche bisogno di segnalarlo, ma così non è, e quindi un elogio all’Alcatraz e ai fonici dei Bon Iver.

Setlist: Il concerto si apre con “Perth” e “Minnesota, WI” primi due pezzi del nuovo omonimo album, scelta molto apprezzata dal pubblico: l’album “Bon Iver” viene eseguito praticamente tutto apparte “Michicant” e “Lisbon, OH”. All’interno dello show spazio anche per alcuni pezzi da “For Emma, Forever Ago” come le immancabili “Flume”, SkinnyLove” e “Creature Fear”

Momento Migliore: A livello emotivo senza ombra di dubbio il karaoke su “Skinny Love”, sicuramente un momento molto alto, tanto che anche lo stesso Justin Vernon si emoziona in maniera abbastanza evidente. Personalmente ci tengo a segnalare anche la doppietta iniziale “Perth” e “Minnesota, WI” veramente esplosiva nella sua coda epica.

Pubblico: Tantissimi giovani e anche qualche “anta”, curioso di vedere dal vivo il nuovo fenomeno del Folk mondiale. Di sicuro tanti Barba e Sinapsi.  Alcuni, soprattutto i più giovani, dotati di pantalone skinny d’ordinanza, che immancabilmente danno l’impressione di essere venuti più per l’evento che per l’artista in sé, ma è giusto anche così, perché di evento si tratta. Religioso silenzio nei pezzi chitarra e voce (molto meno per il gruppo di apertura) e ressa finale al banchetto del merchandising che finisce il materiale nel giro di 20 minuti, comprese le magliette. Insomma, sincero affetto per Justin Vernon che, da vero artista con una nutrita gavetta alle spalle, ci tiene sempre a precisare di ritenersi fortunato a poter passar la vita sui palchi: “è come essere continuamente a un campo estivo con le birre e quant’altro” ci dice, quasi scusandosene.

Locura: comincia timidamente, Justin… “Il mio amico Jeff Tweedy canta ‘Music Is My Savior’ [la musica è il mio messia salvatore]… è… è  in effetti una cosa molto forte da dire… Io penso che la verità della Bibbia sia… sbagliata!” e qui fa una piccola pausa, forse scordandosi di essere a Milano e non in Texas. Ma appena sente un tizio che dal parterre risponde alla sua esternazione con un sonoro“Yeah!” comincia uno sproloquio sulle pergamene del Mar Morto (insomma i Vangeli Apocrifi) da vero internet geek da manuale. Un cuore grande così e una semplicità disarmante per Justin, che collidendo con la sua proposta musicale altissima, ottiene l’effetto di accrescere la complicità tra palco e platea e di abbattere con nonchalance la famosa quarta parete.

Conclusioni: Bon Iver si conferma un progetto maturo, e Justin Vernon un artista con le idee ben chiare. Artisticamente parlando è  invidiabilmente autonomo nelle scelte e mai condizionato da chissà quale moda o trend. La cosa che traspare dal vivo ancor di più è la credibilità e sincerità di un progetto mischia folk ad aperture quasi sinfoniche, lunghe code strumentali (quasi post), soluzioni vocali stile Marvin Gaye, un uso creativo dell’autotune, e che più ne ha più ne metta. Insomma un collage di influenze che non risulta mai forzato e che proprio per questa naturale omogeneità diventa anche di difficile individuazione. Si esce dal concerto forti della consapevolezza che il collettivo Bon Iver andrà avanti al lungo, non certo un fuoco di paglia, e non di certo un fenomeno del momento (nonostante l’attenzione del “giro giusto”, per una volta, ampiamente motivata). Me lo immagino già al suo sesto album con ancora tantissimo da dire: saremo forse migliaia o quattro gatti al suo ennesimo concerto? Di sicuro lui sarà sempre lì, capace di emozionarci e di emozionarsi, e di ricordarci sempre quanto è fortunato a salire su quel palco.

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Skinny Love