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25 Settembre 2012 | GlassNotemusic.com | Mumfordandsons.com |
Halleluja, i Mumford&Sons sono tornati. ‘Babel’, secondo disco della band indie-folk londinese, è stato accolto come la messianica venuta della “Vera Musica”, tanto da permettergli di battere Muse, Green Day e pure quel tale di nome Justin Bieber in quanto a vendite.
Composto in una pausa di riflessione tra Nashville e amene località nel bucolico sud dell’Inghilterra, per poi essere testato in vari live prima di essere registrato, l’album vede i quattro componenti polistrumentisti alle prese con la disperazione e la speranza ai tempi del banjo. Il loro progetto di tradurre gli ultimi afflati pop in termini folk va avanti come un treno, raccogliendo consensi da estimatori d’eccezione quali Springfield e Dylan, nonché Paul Simon (tant’è che fra le bonus-track di Babel spunta una cover di ‘The Boxer’: se cominciano a farsi regali a vicenda, stiamo a posto per i prossimi vent’anni). Tuttavia, c’è da dire che, rispetto a ‘Sigh No More’, qui i brani si fanno meno accattivanti; sicuramente più oscuri e inquieti, ma anche meno coinvolgenti, anche se la formula di base resta la stessa: i Mumford&Sons hanno delle cose da dire, le racchiudono in raffinate liriche di ispirazione biblico-letteraria, le adornano con melodie e ritmi tali da connotare genuinità in ciò che viene detto (con un’attenzione particolare a suscitare la voglia di intonare in coro qualsiasi pezzo in stile “messa domenicale alternativa”), e infine confezionano un disco che sembra progettato da un genio del marketing, ma in realtà proviene tutto dalla comunità folk west-londinese che ha già permesso l’ascesa di Laura Marling e Noah and the Whale.
Il tutto prodotto da Marcus Dravs (Arcade Fire, Coldplay), e allora è fatta. Se i primi singoli estratti, ‘Babel’ e ‘I Will Wait’, non sconvolgono più di tanto, ci sono ‘Hopeless Wanderer’ e ‘Broken Corwn’ ad agitare le acque, con le loro improvvise accelerazioni e variazioni di intensità che arrivano a far urlare Marcus Mumford, proiettandolo fuori dall’aura di calmo ragazzone di campagna.
In ogni caso, da un gruppo che si prefigge di rappresentare la realtà nuda e cruda ci si aspetterebbe un po’ più di “sporco”, un’imprecisione popolare alla Pogues, per capirci. Ma per una band che, tra un’osannazione su Christianity Today e un complimento su Tracce (rivista internazionale di Comunione e Liberazione), ha la velleità di rivestire il ruolo di baluardo rassicurante nel clima generale di austerity, la carineria dei Mumford&Sons va bene.