Offlaga Disco Pax: (Press play on tape)

Farebbero tenerezza gli OfflagaDiscoPax, se la tenerezza non fosse un sentimento ormai troppo democratico. Farebbero tenerezza come le cose naufraghe della storia o della catena produttiva che tengono lì sul palco, tra l’alimentari sotto casa e il famigerato vintage, ma “do it yourself” e alla buona. Tutte le loro cose a bassa intensità, edificanti, decontestualizzate, che ti lasciano il piacere di fartene tu, un’idea (se ti viene), o di perderti nel suono e sentirti un po’ un replicante, un incolpevole e puro residuo.
Ebbene, forse gli OfflagaDiscoPax vorrebbero un pubblico di nostrani dark che vivevano il dissidio tra la ricrescita da due centimetri di una permanente bionda e la provincialità del campetto del centro sociale anziani. Forse vorrebbero che il fluire del tono standard da dottorino dei corsi leninisti (solo un po’ più dopolavoro per la verità) di Max Collini venisse filtrato attraverso ricordi wave e post punk (ma comunque a bassa intensità). Anche perché il chitarrista, dal vivo, conquista più spazio sonoro e, sfoggiando una maglia nuova di pacca degli Editors, sfilaccia davanti ai nostri occhi infiniti ricordi delle varie derive a cui questa new (new) wave si richiama. Niente di celebrativo o di invadente, sono quasi piccoli sample e come sample ripetuti, omaggi, luci dei cure che balenano qua e là, vertigini bauhaus (Of Lillies and Remains), riverberi dilatati in delay infiniti come avviene nel finale di Enver, il tutto sopra un basso funk ’70 e un beat megadisco di quart’ordine. E il walzer a spirale di Khmer rossa (di capelli o al limite come la sua passione, o tutt’e due) si tinge dal vivo di un’oscurità che potrebbe essere di Siouxsie: marziale, crudele. E poi Collini si toglie il maglione come fosse a casa sua, e via con Cinnamon! (perché “le chewingum sono molto importanti per capire la società contemporanea”) Ed è divertente questo basso dal ritmo dance ma oscuro come non mai (sul disco) nella successione semplice delle sue tre note tre. Alla fine lanciano gomme alla cannella (e vorrei vedere!), e c’è un tizio che alza il pugno quando sente che il cinnamon è il sapore più rivoluzionario, e anche lui diventa parte di uno spettacolo stralunato e decontestualizzato, un punto vuoto della Storia.
Ricordi di KidA e ci assale al cuore Tono metallico standard, con il suo giro di chitarra da spiaggia, ma agonizzante come una prova tecnica di trasmissione da un altro decennio, o forse da due decenni fa, ma il messaggio che salva il mondo non si sente, affogato tra i feedback, scariche di overdrive e delay sgranati. Mi capita anche di chiedermi perché tutti si sentano così solidali con l’autobiografico protagonista del brano, quando con la forza incontrovertibile di una cosa che c’è rivela: “ora capisco: il mio aspetto ordinario gli trasmette ascolti [pausa] deplorevoli“. E’ vero: Max Collini ha un aspetto ordinario, con il suo maglioncino blu, la sua faccia completamente sbarbata e il pallore da operaio del turno di notte, i suo capelli neri riga in parte. E giureresti perfino che al polso abbia un casio al quarzo, di quelli col cinturino metallico. Mentre giù dal palco questa sera sono venuti a vederlo molti di quelli che lo torturano o che potenzialmente lo farebbero, come commessi del negozio di dischi dal tono metallico standard, con il nome del cantante giusto in bocca, imparaticcio, perché fa cool e col vestito buono per un cocktail con i bloc party. Perché sotto al palco siamo tutti vestiti molto, e molto diversi da lui, e non ci sono certo i residuati bellici di Videomusic che forse gli Offlaga vorrebbero. In ogni caso, come che sia, lo Zoobar è pieno fino all’orlo, e non mi è mai piaciuto fare di tutta l’erba un fascio, o di un saio un monaco, per cui, se ho pensato male, fatemelo sapere.
E’ la volta di Piccola Pietroburgo, la drum machine svalvola, fa la matta, si arrovella, sembra quasi farlo apposta, ma poi ritorna sui binari meccanici prefissati, e sui synth di armonium che introducono la piccola pietroburgo cessa la sua breve estemporanea piccola ribellione. Un po’ come noi. Ma siccome è periodo elettorale qualcuno si perita di emettere qualche sommesso wohoo quando il busto di Lenin comincia a lacrimare, passando un po’ retoricamente sopra la visione (invece) estatica del bianco sugli scafi delle navi dell’arsenale di Arcangelo. Ma i brividi vengono comunque. E rimangono sull’attacco di Tatranky, che attraverso il nome di uno snack ceco fa una radiografia gentile e commossa di quello che Praga è diventata oggi, schiacciata tra una rimozione di un regime e la necessità di abbracciarne un altro, il nostro. La drum machine si impianta di nuovo, ma niente paura e si riattacca sulla prima struggente armonizzazione di moog, e c’è pure una confezione famiglia di wafer Tatranky sul palco, sormontato da un pupazzo de “La Talpa”, che è il protagonista di certi cartoni animati destinati ai bambini sovietici. Previsto lancio di Tatranky per tutti (sìsì, lo snack) da parte di Collini sul finale.
E pure con De Fonseca ha la ciabatta in questione in mano, UNA, ma non ce la lancia. Il brano potrebbe essere una melodia venuta dal freddo della wave più ariosa ed atmosferica, perso com’è tra ariosi riverberi spazianti, e la malinconia di una domenica sera passata in solitudine, che esplode in un pianto di chitarre sul finale e i pochi colpi desolati della drum machine.
E alla fine arriva, arriva Robespierre, quella che tutti aspettavano e che tutti conoscono a memoria, come i riferimenti al mondo fine anni ’70 presenti nel testo, astronave da trecento punti di Space Invaders compresa: sicuro merito del retrogaming.
E il finale è appunto un ringraziamento standard e atonale in cui OfflagaDiscoPax esprime il desiderio di ringraziare questo e quell’altro, come fossero i credits di un videogioco da bar.
Ma il concerto non finisce e come bis ci regalano Cioccolata IACP, una storia di quartieri dell’Istituto Case Popolari, sezione di partito e campetto con tossici vicino al centro sociale per anziani, conseguenti lotte tra fattoni e pensionate a base di fagioli per il bingo, e poi arriva Barbara, con il suo carico di tempeste ormonali, inquietudini, pompini a basso costo e fughe randage verso la città. E quando questa splendida randagia appena quindicenne si spegne, sul finale del brano, aleggia un filo di retorica, ma forse ci dev’essere. Perché -come ci ha avvertiti all’inizio la voce ideologa degli Offlaga- queste sono “storie, purtroppo, QUASI tutte vere”.

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