Control, A. Corbijn

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Da quel che ne dice il suo amico e più volte modello Bono Vox, Anton Corbijn “non fotografa semplicemente i musicisti, ma la musica stessa”. La formula potrebbe valere anche per il suo esordio nel cinema, se non fosse che per quest’occasione l’obiettivo del videoartista inglese è totalmente puntato sulla dimensione privata di Ian Curtis, il fu leader dei Joy Division.

Curtis contro se stesso: “la lotta tra la coscienza dell’uomo e il suo cuore” per dirla con il citato colonnello Curz. “Ian contro Ian” come la mette giù, più cinicamente, uno dei membri della band, al termine di un attacco epilettico che ancora una volta ha posseduto il frontman nel bel mezzo di uno show: Corbijn rincorre questo dualismo interno e lo usa come chiave per farsi una ragione del dramma che si portò via il suo vecchio amico.
La lotta fra il personaggio di successo e l’uomo a pezzi nella propria intimità, per dirne un’altra: in ‘Control’ il primo resta sullo sfondo insieme a tutta l’attività dei Joy Division, con i compagni a fare spallette quasi indifferenti e un Tony Wilson che a tratti ci fa pure la figura del cagone: come già detto, Corbijn preferisce pedinare il Curtis privato, intimo, quasi “domestico” e sceglie di farlo seguendo le trite strade amorose e indugiando (fin troppo) a lungo sulla sua doppia vita sentimentale: il matrimonio con Debbie (Ian il giovane pater familiae) e la tresca con la giornalista belga Annik Honorè (Ian il romantico viveur).

Lo si fa, quantomeno, con una certa discrezione: per l’autore la parola d’ordine sembra essere “togliere”, togliere tutto il possibile per restare con soltanto l’essenziale fra le mani. Nella grassa abbondanza dei moviepics musicali degli ultimi anni, ‘Control’ è uno dei pochi a non essere infarcito fino all’indigestione di musiche ad alto volume, effetti pirotecnici, colori pop o scattanti montaggi da videoclip. Nemmeno la facile scusa dell’epilessia del protagonista tenta il regista ad azzardare qualche uscita visionaria: il dramma di Ian viene invece celebrato nel silenzio, e anche una colonna sonora che è di tutto rispetto si fa da parte e viene ri(con)dotta ad una gracchiante radiolina o ad un giradischi, stretti in qualche angolino della diegesi.

L’elegante bianco&nero, che già era la cifra stilistica dei suoi scatti, aiuta Corbijn a spogliare ulteriormente la scena e a fare più vicino lo sguardo, ma senza mai rompere il confine del dietro-cavalletto. “Touching From Distance” titolava il libro della vedova Curtis da cui è tratta la sceneggiatura del film, provare toccare con mano ma mantenendo le dovute distanze. E così, quando lotta interiore a Curtis arriva al suo tragico acme, l’immagine rispettosamente eclissa; e nel momento straziante in cui Deborah rientra in casa e ritrova il corpo la camera si chiama fuori dalle pareti, con antonionica discrezione.

Inutile sprecare le ultime righe tentando di tessere le lodi alla superba qualità della fotografia o a decantare le strategiche posizioni della macchina da presa più di quanto sia già stato fatto altrove: in parole povere, Corbijn infilza una dopo l’altra inquadrature che sembrano fotografie parlanti. La prima prova a lungo-metraggio vede concludersi la lotta fra il Corbijn fotografo e il Corbijn videoclipparo a favore del primo. Felicemente. Lasciate ogni speranza, o voi che cercate disperatamente il film nelle sale della Penisola. Ora come ora la distribuzione italiana di ‘Control’ latita: così la prossima volta impariamo a farcela in casa, la new wave!!!L’unica cosa che potete fare è firmare questa petizione online