L’ACCUSA P.M. Emanuele Binelli
Qui o si parla della musica del futuro, da ballare, o si parla di un prodotto intellettualistico per chi non ha il coraggio di ammettere che ballerebbe Alejandro di Lady Gaga, o I Gotta Feeling dei BEP. Nel primo caso, M.I.A. sarà ricordata in futuro come quella che ha cambiato le regole del gioco. Nel secondo caso questo disco sarà come un tostapane di raffinato design, che non tosta il pane, ma che è molto bellino da esporre in cucina. Perché gli intellettuali in discoteca non ci vanno. Mentre chi cerca l’underground ormai M.I.A. l’ha lasciata perdere. I beatmakers di M.I.A. confezionano un lavoro che vuole essere mainstream, ma che nel contempo sconfessa con ogni fischio, con ogni asperità e dissonanza industrial la sua appartenenza al mainstream. Il rischio è quello di non soddisfare ne’ l’underground dei club più estremi, ne’ il mainstream. Il che, per un’artista che si è sempre voluta diretta, pane al pane, non è bello, ma che anzi è un po’ ipocrita. C’è un intellettualismo di fondo che mal si associa alla base, alla strada, al paese reale dell’underground. Chissà che non troveremo mai M.I.A. nel loft del PD a cenare con Veltroni, un giorno. E intanto XXXO come singolo è una vera schifezza, e il giochino dell’ironia del “nego qualcosa per affermarlo” è ormai vecchio e logoro come il cucù. Come il “ma anche no” che andava tanto, qualche anno fa. Tutto il resto, discorsi sul padre di M.I.A., sul significato anarcoide e di alcuni testi, sullo Sri Lanka, non passeranno alla storia, perché la gente da M.I.A. vuole una cosa: muovere il culo. E se il culo non si muove, M.I.A. scompare. E la gente che balla non la freghi.
Oppure non ragiono in termini globali. Forse c’è una terza via. Forse questa musica sarà la musica di un terzo mondo che si vuole libero, e che però non vuole rinunciare alla sua identità? Che è una battaglia sacrosanta di civiltà. Ma mi riesce difficile credere che la missione di gettare un ponte musicale tra i due mondi venga compiuta con successo da un’artista che vive a Los Angeles e che scrive di iPod, download, twitter, di Nintendo Wii e di altre menate simili. Peraltro se il disco avesse avuto tutto il tenore punkoide di Born Free, M.I.A. avrebbe un altro pubblico ai suoi piedi. Ed è vero che Meds And Feds è un inno dei blogger e dell’anarchismo internettiano. Ma quei brani sono un brillante episodio isolato. Come quando Dalema ha mandato affanculo il vice direttore del giornale Sallusti. Non illudetevi.
LA DIFESA Avv. Enrico Calligari
Questa è la storia di un’artista che fatti due album molto eccitanti e divertenti, intransigenti ma anche danzerecci, etnici ma di impatto mondiale è attesa alla prova del terzo disco. Nel frattempo il suo mito underground cresce a dismisura fino a diventare la diva underground per eccellenza e con lei anche il produttore-amico-exfidanzato che arriva a fare lavori anche per Britney Spears e Madonna. Succede che stavolta l’artista decida di fare di testa sua e far uscire un disco difficile, ostico e inafferrabile e di promuoverlo con una vera e propria guerriglia fatta di video shock censurati ovunque e pessimi scherzi a giornalisti musicali, incluso un concept grafico del disco e del sito disturbante e geniale come solo l’arte contemporanea sa essere. In pratica fa il cazzo che gli pare. Risulato: i primi pareri sul disco sono spiazzati e confusi. Ne approfitta il produttore-amico-exfidanzato che con una sospetta tempistica prende le distanze dal disco, sottolineando proprio l’intransigenza dell’artista in sede di produzione. Ma perchè non uscirsene prima? Perchè aspettare le prime reazioni storidite? Perchè, soprattutto, non aspettare qualche anno? Il pericolo, diciamo noi, era che, col tempo e con gli ascolti scremati dalle aspettative il disco si rivelasse per quello che è: un’opera d’arte più cruda del previsto.
Non è un disco, questo terzo di M.I.A., che si fa ascoltare col corpo. Non fa ballare, è vero, ma non fa neanche pensare. E’ un oggetto con cui entrare in contatto a distanza, assumendo come prospettiva un abbandono ad occhi aperti.
La sfida di M.I.A. è quella di confondersi con la fisicità dello sfondo, confrontarsi col rischio di essere chiunque, rinunciando ai dancefloor e agli orpelli esotici, spiazzando chi pensava che nell’essere al centro della pista, avere l’attenzione, fosse il senso della contemporaneità, e tuffandosi invece nei rumori di fondo, per riemergerne nuova e più forte. Missione compiuta secondo noi.
M.I.A. costruisce una città, attraverso il chiasso delle sue vie principali, l’irrealismo dei suoi centri commerciali e l’altrettanto irreale intimismo ovattato dei suoi nascondigli. Con languide ruspe fatte di distorsioni e abissi dubstep sopprime il brulicare delle favelas ed edifica finestre chiuse. Ha l’atmosfera ovattata del nido, del punto di osservazione protetto e ossessivo, immobile davanti ad una variopinta materia sonora che si sdipana. In questo senso XXXO, il brano tanto criticato per il suo appeal mainstream, quanto inebriante e insinuante, ci appare un azzeccatissimo controsenso. Il suo suono di pop acido ma standardizzato non è diverso da quello dei trapani in Steppin’Up o alle sirene di Teqkilla, il tasteggiare di The Message.
Quella di M.I.A. è una ricerca trasversale al rumore d’ambiente delle nostre città, ne assorbe lo squallore e lo rielabora. Chi non capisce questo rimarrà sempre attonito sul perchè è Lady Gaga ad attecchire sulla rabbia creativa della nostra gioventù periferica piuttosto che una qualche band urlatrice.
C’era chi diceva che parlare di musica è come ballare di architettura. Ecco, parlare di questa musica è come ballare di questa musica.
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