Low: intervista con Alan Sparhawk

Domande di Simone Dotto

Il suono di C’mon è molto più vicino a quello dei vostri vecchi album che non a Drums and Guns, il suo predecessore. Che cosa è andato storto con l’elettronica?
Il lavoro su Drums and Guns non era del tutto intenzionale: abbiamo preso delle canzoni a cui avevamo più o meno già dato una forma e le abbiamo forzate un po’ con del rumore. A un certo punto ci siamo chiesti come sarebbero suonati i Low se avessero fatto qualcosa di diverso. Ma già durante le fasi finali di quel lavoro sapevo benissimo che l’album successivo sarebbe stato agli antipodi: e infatti C’mon si è configurato da subito come un disco di canzoni personali, scritte dalla prospettiva di qualcuno che ha vissuto esperienze complicate e ne vuole parlare con una persona a cui tiene. Questa volta la band non ha avvertito l’esigenza di cambiare  nè  ha avuto la tentazione di snaturare le canzoni, magari imbruttendole un po’ solo per capire come avrebbero suonato.  Se questo disco suona come i nostri vecchi album è perché in fondo siamo le stesse persone.

Quale fu la reazione del vostro pubblico di fronte a un lavoro così diverso?
Conoscendo un po’ i fan dei Low sapevo che ci avrebbero seguito: non mi sono posto molto il problema all’epoca e non so quanto sia stato complicato per loro approcciarsi al disco. D’altro canto noi, pur consapevoli di voler andare oltre certe convenzioni, non volevamo snaturare la band, né il modo in cui suonavamo dal vivo. Drum and Guns era solo l’album giusto per quel determinato momento della nostra carriera. E poi nessuno viene a dirti  “sai, il tuo disco mi ha fatto schifo”. Sono tutti estremamente carini, o forse sono solo io ad avere una percezione sbagliata di quello che faccio…

Una canzone del vostro nuovo album, Witches contiene una strofa buffa che dice “All you guys out there / trying to act like Al Green / all you guys out there / trying to act like Al Green, you’re all weak”. Cosa significa? E’ un riferimento alla scena musicale di oggi?
In realtà è un verso che rubato al rapper Kool Keith.. .Per me Al Green rappresenta la purezza. Se penso alla sua voce, alla sua vita…Al Green è qualcosa che non riesco del tutto a definire. E in realtà con quel verso intendo parlare a me stesso più che agli altri, è qualcosa che dico a me: Al Green è quello che sarei io se fossi bravo.

C’mon è stato inciso in una chiesa sconsacrata a Duluth, secondo quella che ormai è una pratica abbastanza comune fra gli artisti indie rock. Di recente l’hanno fatto anche Pj Harvey e Arcade Fire, e si dice che persino i Rem abbiano iniziato a suonare in una chiesa ad Athens. Cosa c’è nelle vecchie chiese americane di tanto speciale?
In America le chiese sono gli unici edifici davvero vecchi e resistenti, sono gli unici edifici storici in senso stretto. Gli altri palazzi non hanno più di 100-130 anni, tutti gli insediamenti dei primi coloni avevano una chiesa. Sono sopravvissute al tempo e anche alla scomparsa del fattore religioso, tanto che molte non vengono più usate per scopi rituali ma diventano, per esempio, studi da registrazione. Chiunque abbia frequentato una chiesa ne conosce l’acustica particolare, fatta di echi e di riverberi, è un ambiente che ha una sua specificità sonora. Dunque registrare lì ha un significato tecnico ma ovviamente anche artistico; pensa solo a quei soffitti alti, sono di immediata ispirazione per un artista. Molte band provano piacere a registrare in un luogo significativo e noi siamo fra quelli.

Avete mai pensato di fare anche un tour all’interno delle chiese storiche d’Europa?
In realtà abbiamo già fatto diversi show di quel tipo. I Low hanno origini umili, abbiamo iniziato a suonare nei club punk rock, negli squat, per questo ci troviamo a nostro agio ovunque. Crescendo, i promoter ci hanno proposto location diverse ed è diventato sempre più frequente chiedersi “perché non mettere i Low in una chiesa?”. E’ una bella esperienza, interessante, ma mi sento a posto ovunque suono. Anche sul portico di casa mia.

L’anno scorso, al Primavera sound festival di Barcellona avete suonato The Great Destroyer per intero. Perché un concerto di questo tipo e perché proprio The Great Destroyer? Lo considerate già il vostro “album classico”?
Ce lo ha chiesto l’organizzatore. In precedenza avevamo fatto un paio di show solo con pezzi da Thing we lost in the fire perché ce lo aveva chiesto il promoter inglese, quindi immagino sia andata così anche per il Primavera. A qualcuno del loro staff deve essere piaciuto particolarmente The Great Destroyer, sarà stata una decisione nata per caso durante una conversazione. E’ andata bene, e per noi è stato anche interessante: quando fai uno show in questo modo ti risparmi un sacco di tensioni, è come se avessi già risposto a una serie di domande. Il pubblico sa cosa suonerai e che apprezzerà quello che farai, e lo sai anche tu da musicista. Gli altri concerti contengono sempre un azzardo, come iniziare, come finire. A volte è piacevole andare lì fuori e sapere che è già tutto definito.

Lo stile dei Low rimanda spesso a vecchi gruppi degli anni ’60, come Byrds e Crazy horse. Sono quelle le prime cose che hai ascoltato?
In realtà eravamo ragazzini e adolescenti negli anni Settanta. Sì, siamo vecchi (ride, ndi). In quel periodo ero ossessionato dal punk rock, dall’essere anti pop, quello che volevo fare era semplice, mettere su una band che va su un palco, scrivere dei testi, tutto nel canone. A meno che non ti lanci subito nell’elettronica, quello che fai all’inizio è sempre strainfarcito di riferimenti.

A tal proposito, forse “essere innovativi” è apparentemente più semplice nei generi come l’elettronica e la dubstep. Non pensi invece che l’indie rock degli ultimi anni stia patendo un eccesso di riferimenti al passato? Chi ti sembra particolarmente bravo nel percorrere altre strade?
Direi gli Animal Collective: Noah sta facendo un gran lavoro per scrivere canzoni che siano umane e spontanee usando la tecnologia per conseguire il suo scopo. Gli altri sono retroist oppure suonano come se avessero premuto un bottone e la macchina andasse da sé. Noah invece fa uno sforzo “umanistico” e allo stesso tempo cerca di mantenere il controllo della musica che fa, e in questo è davvero contemporaneo. Non seguo la scena come dovrei, ci sono altri artisti in gamba, Flying Lotus ha fatto un bel disco recentemente, ci sono cose grandiose che provengono dall’hip hop dove c’è un ritorno all’idea originale e spontanea del genere, che in questo senso è quasi una forma di “folk”, nel senso di popolare.  So che esistono molte band che fanno musica solo attraverso riferimenti al passato, usano esclusivamente quel linguaggio: quello che sento in giro, sostanzialmente, è una combinazione di rock degli anni settanta e indie rock americano dei primi anni novanta, quello suonato dalle band con cui andavamo in tour agli inizi. Gli Arcade Fire, Dio li benedica, fanno degli show impressionanti, ma non sento molta innovazione da quelle parti.

Quest’anno il vostro gruppo compie 18 anni, che in Italia corrispondono alla maggiore età. Qualche desiderio da esprimere per una band che diventa grande?
Sono ancora inconsapevole e decisamente ignorante rispetto a come vanno fatte le cose. Il che è positivo, direi. Fino a qualche tempo fa ho fatto degli sforzi enormi per far quadrare la musica con altri aspetti della vita, il mutuo da pagare, i figli da crescere. Le mie prospettive cambiano di volta in volta, adesso faremo un lungo tour e poi chissà. Per adesso mi fa stare bene l’idea dei live, mi piacerebbe registrare un disco in quel momento esatto, quando sono su un palco davanti al pubblico. Cose così.