Che poi, non ho nemmeno il biglietto, ho solo una stampa in pdf, che gusto c’è a conservare un pdf?
Se vuoi ti do il mio, tanto io lo butto.
Davvero!?
Lo sguardo è fra l’incredulo e il premuroso, mentre penso: davvero avrebbe buttato via il biglietto degli Scisma?
Bhe, in questo caso grazie infinite!
Probabilmente, gran parte del senso di un evento come la reunion degli Scisma sta proprio in questo rapido scambio di battute carpito all’ingresso del Monk, sabato scorso. Conservare un biglietto, infilarlo fra le pagine consumate di un’agenda o in qualche prezioso cassetto, per ritrovarselo fra le mani un giorno, magari dimenticato, fra chissà quanti mesi o anni, e sentire formarsi fra le pieghe del viso un sorriso compiaciuto e commosso: ecco, è esattamente questo ciò che ti aspetti, assistere a un concerto memorabile.
Quella di sabato 24 ottobre è stata una grande serata. Ancor prima di viverla, già era palpabile il bisogno di ricordarla, un giorno. Non avremmo mai pensato di viaggiare nel tempo – anche se sono giorni in cui tutti cercano di ricordarti che Robert Zemeckis ha fatto materializzare la sua DeLorean proprio nell’ottobre del 2015 –, di poter (ri)vedere gli Scisma suonare live quei pezzi entrati nei meandri del tuo cervello sotto la codifica: “bei tempi, quelli”.
Retromania, nostalgia del non vissuto: così hanno etichettato, a ragione, lo spaccato musicale del nuovo millennio. Una sentenza che suona quasi offensiva nei confronti degli Scisma; anime buone e incontaminate, con il loro pezzetto di musica consegnato alla storia, più o meno seppellita, più o meno scintillante.
Il punto è che la nostra identità invoca tasselli da mettere insieme per ricostruirsi, e volge lo sguardo indietro perché il presente è talmente veloce da essere già passato nel momento preciso in cui lo stai vivendo – altrimenti a cosa servirebbero tutti quegli smartphone alzati in aria per cogliere l’attimo?
Ed eccolo qui il te stesso del futuro mentre passa in rassegna le foto, gli appunti, le cartoline, le lettere e (ovviamente) i biglietti dei concerti passati. Pezzi di te sparsi qua e là da rimettere insieme, che raccontano chi sei. Ed eccoli qua, gli Scisma del futuro a ricomporre i pezzi, a dirci chi sono, a dirci che non è nostalgia, ma solo voglia di “riscrivere un finale”.
Good Morning. Bentrovati.
Abituati come siamo agli orari dei live club nostrani, si finisce per stupirsi della puntualità, quando si presenta. Varcando di corsa la soglia del locale, ci accolgono immediatamente le note spaccacuore di “Good Morning” – la voce è quella di Sara Mazo, e noi stavamo per perderci l’inizio del concerto. Poi il passo aumenta. L’intento è quello di raggiungere il miglior punto d’osservazione possibile, ma veniamo irrimediabilmente avvolti dalla romantica drammaticità di una delle canzoni più belle del repertorio degli Scisma. È l’apertura perfetta ad accoglierci, ad abbracciarci, a cullarci: “Voglio esaudire ogni tuo desiderio profondo e sincero” e le lacrime fanno fatica a non scendere.
Ringrazio Dio, che mi ha fatto troppo poco intelligente.
Il quarto pezzo in scaletta è fra i più acclamati; del resto “Troppo poco intelligente” veniva riproposto anche in chiave solista da Benvegnù, ed è forse uno dei pezzi che ha maggiormente incrementato il mito degli Scisma – degna di nota l’interpretazione fluttuante e leggera di Sara Mazo. Una leggerezza lucidamente intelligente che gli permette di scrivere pezzi pop senza troppe aspettative, ma non per questo banali, come quella musica elementare fatta di: “pensieri elementari che appena ho quattro soldi me la faccio tatuare”.
One-Two-Three-Tungsteno!
È l’apice dell’esibizione romana. Un tripudio di voci ad intonarla, un’esplosione corale, il mito del tempo perduto che si fa realtà. Un tuffo nel passato, in quel non-sense in perfetto stile nineties: erano i tempi di Valvonauta, dei Prozac +, dei Subsonica, dei richiami al futuribile, di chitarre scintillanti e spaziali, di ritmi anche un po’ robotici e cibernetici. Un delirio di emozioni divertite, di saltellamenti, di gioventù ritrovata nella formula magica “GOD-BLESS-ME!”. É il passaggio catartico, il richiamo ancestrale: il momento perfetto di questo piccolo rito collettivo.
Scusa se ti ho amato in ritardo
Fra le sei canzoni che compongono il nuovo Ep, “Darling, Darling” è sicuramente quella dalle sonorità più atipiche. Un pezzo funkeggiante ed incredibilmente catchy che dal vivo dimostra tutta la sua forza trascinante. Poi c’è quel “Scusa se ti ho amato in ritardo” che sembra adattarsi perfettamente al fanatismo ex-post che ha accompagnato questo ritorno sulle scene. Qualcuno ha davvero iniziato ad amare soltanto ora, in ritardo, la musica degli Scisma.
Musica Elementare.
In più di un’occasione, Paolo Benvegnù ha rivelato di trovare negli Scisma il luogo ideale in cui esprimere il suo lato più leggero. Circostanza, questa, legata anche a una questione meramente strutturale: Sara Mazo con la sua voce riesce a dare un tocco più etereo ed imperfetto alle canzoni, laddove invece Paolo risulterebbe quasi matematico – con quel timbro da cattedratico filosofeggiante. Anche se questo non rappresenta necessariamente la regola – la produzione di Benvegnù ha tantissimi episodi che si distaccano da questa descrizione di massima –, con gli Scisma il gioco è da sempre riuscito meglio. Sia in passato mediante un pop sofisticato, sia nel presente con la semplicità della produzione di “Mr. Newman”, la cui summa risiede proprio in questa “Musica Elementare“:
“perché lui non è che una parte di sé, perché tu conosci solo parte di me”
Benvegnù ce lo racconta live indossando una torcia sulla fronte, segno chiarissimo della sua vena istrionica mai abbastanza palese. Una “parte di sé” che molti non vedono e che sabato sera è stata grande protagonista.
“Noi siamo gli eroi del metodo sperimentale, gli unici che puntano dritto all’infinito senza riuscire a raggiungerlo mai”
Simmetrie.
Simmetrie apre l’ultimo bis. Una canzone incantevole, la più potente rappresentazione del romanticismo à la Scisma. Chitarre effettate, retrò, e quel “baciami” piazzato all’interno di un climax melenso che ci avvolge languidamente. Siamo arrivati alla fine, dopo una scaletta che ha pescato fra l’ultimo “Mr.Newman” e i due dischi più famosi “Rosemary Plexiglas” e “Armstrong” – con una decisa preferenza verso quest’ultimo. L’alchimia fra i componenti del gruppo risulta inalterata, come quella altrettanto importante con il proprio pubblico. Una reunion non solo per la band, ma per una moltitudine di anime perse, bramose di quel modo d’intendere il suono forse ormai lontano. Ritrovarsi è stato molto più facile del previsto, fino a commuoversi sul finale. Quando i nostri salutano ed escono di scena, i brividi ci percorrono la schiena. È tutto finito, un’altra volta, e non si può chiedere diversamente. Era tutto previsto.