Lo Chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti

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La storia e l’avventura produttiva di Lo chiamavano Jeeg Robot stanno entrambe in una lunga, estenuante e impossibile rincorsa, idealmente riassunta nell’affannosa fuga a gambe levate di Claudio Santamaria dai vicoli romani fino alle sponde del Tevere. Incipit di riscaldamento che diventa sprint del personaggio in ripetuti scapicollamenti a rotta di collo, segnandone il (cambio di) passo narrativo da inseguito a inseguitore, da preda spacciata a provvidenziale soccorritore, da reietto divoratore di porno e yogurt – con fiato corto e grasso in eccesso – a supereroe che mette le ali ai piedi per il bene comune e le speranze degli sbandati.

È lo slancio, l’incessante rincorsa continuamente rilanciata dall’opera prima di Gabriele Mainetti – a tratti apparentemente (stra)fatta della stessa materia pulsante di cui è fatto il Crank con Jason Statham, tagliata con Batman, Kick-Ass e i romanzi criminali assortiti de noantri – per coprire spazi, accorciare distanze, abbattere steccati e barriere che separano tutti i generi – cinecomix, cartoon, melodramma, thriller metropolitano, film di gangster, affresco sociale, action-comedy, comico – che il film vuole invece accorpare insieme e portarsi dietro senza lasciare nulla per strada.

Traguardo brillantemente raggiunto proprio perché Jeeg Robot, aperta la soglia di sospensione dell’incredulità, riesce a tenere incollati – col nastro isolante nero per riattaccare un mignolo, o con quello spesso, grigio e appiccicoso che dopo Kill Bill, dice lo Zingaro,“se lo so’ comprato tutti” – il parossismo fumettistico gratuito o spernacchiato (un termosifone ripiegato come un fazzoletto di carta, un fischio per una tazza del cesso in faccia), i deliri visivi e coreografici con la cruda, scarna e crassa veracità provinciale – divertitamente ostentata – di una brutta e sporca storia di abusi, anime nere, mentalità ultras, degrado e riscatto di periferia.
In una Roma irriconoscibile, confusa ai margini di blocchi divelti e detriti di cemento, minata da bombe misteriose e imprecisate ansie dinamitarde, che si nasconde a se stessa e a chi guarda in interni chiusi e sordidi, con un uso scomposto e defilato delle location monumentali, sempre colte di sfuggita, ai bordi, affianco, infine fuori-campo, ai “tornelli” della messinscena (il climax nella pancia dello stadio Olimpico). Perché la sfida tra superuomini non è tra cattedrali e grattacieli, smisurate estensioni concrete di rispettive utopie ideologiche, ma, più banalmente, a colpi di visualizzazioni youtube dei narcisi egomaniaci e degli artisti del furto di strada (connotazione mediatica non così nuova e originale, ma che troverà uno sviluppo sorprendente, come vedremo).

In una scena contratta dalla segmentazione virale che nega il piano d’insieme se non in due occasioni, nel volteggio aereo panoramico della m.d.p. su tetti e caseggiati, in apertura e chiusura di film. Squarcio di onniscienza visiva che al termine del percorso narrativo va ad identificarsi col punto di vista, la prospettiva dominante dell’eroe. Nel classico, vertiginoso sguardo protettivo in stile uomo-pipistrello che veglia sulla città ignara, distratta e dormiente, com’è proprio la Roma-Suburra di oggi secondo Mainetti.

Anche se poi i “botti” veri, l’immagine che arriva al pubblico, la faccia più accattivante e la fetta più politica del discorso sono prese in carico dal villain (Luca Marinelli sublima e trascende nel pittoresco e nel visionario la maschera stordita, allucinata e ghignante del malvivente borgataro di Non essere cattivo di Claudio Caligari, mentre Santamaria va opportunamente in sottrazione sbiadita e sonnolenta, lasciando in evidenza un corpo bulimico ed eccedente). E in questo il primo Batman di Burton ancora fa scuola: la genesi comune della coppia speculare eroe-nemesi a partire dalla stessa “materia narrativa”, portata poi agli estremi da Nolan. La sinistra resurrezione dello Zingaro, decisamente alla Joker di Nicholson (ma c’è qualcosa dell’Harvey Dent più recente, in quel viso abbrustolito), le mani che riemergono dalla melma come dall’acido e la bocca che sputa poltiglia nerastra come il Pinguino, l’apparizione trasognata dal fondocampo nella tana del nemico, per la resa dei conti.

Proprio quest’ultima scena chiave, l’attraversamento cinetico del suo spazio in ralenty e a zig-zag, tra colpi, rincùli e schiaffi alla cinepresa, è il luogo in cui l’ennesima rappresentazione dell’esplosività di una violenza estetizzante e “orchestrata” – in cui si assomma tutto da Tarantino al Kubrick di Clockwork Orange, con lo sguardo-occhiolino “abbassato” sullo smarthphone anziché sul grandangolo, ma il messaggio non è cambiato, “guarda bene, fratellino!”, e goditi lo spettacolo! – si rivela in realtà l’unica possibile arma di controffensiva – (pre)potentemente politica – per soverchiare il potere assoluto e apparentemente immortale dei clan camorristici napoletani. Un (super)potere reale che spaventa perché eccede il senso e la logica, e che – al di fuori della folle e disturbata utopia supereroica dello Zingaro, che comunque aggredisce inconsapevolmente, solo per affermare so stesso, e non per riportare giustizia -, non sembra poter essere contrastato, superato da nient’altro che non sia il cinema, con lo Stato tragicamente assente, al di fuori dei Tg.

La memoria va così alla Gomorra di Garrone (da quella televisiva si estrapola la citazione vivente di Salvatore Esposito/Genny Savastano). Quando dietro lo porte di uno stanzino lo Zingaro scopre un deposito d’armi dalla mole impressionante di un arsenale bellico, è chiarissimo il parallelo con i due scugnizzi, Marco e Ciro, che nel film del 2008 si impadronivano dei mucchi di kalashnikov nascosti. Battuti dal cinema sulla stesso terreno. Messa così, la coreografica vendetta dello Zingaro, la sua rivincita sulle note della Canzone Italiana che lo ha escluso dal pantheon televisivo – un’altra possibile reminiscenza si trova nella celebrità frustrata del Tony Manero di Larraín, o per restare a Garrone, nello schizofrenia del visibile di Reality -, diventa la soppressione ideale dell’insopportabile mattanza scientifica ad accompagnamento neo-melodico posta in apertura di Gomorra (altro elemento in comune: le vittime totalemente impreparate allo scontro, colte in un momento di relax, in salotto o al solarium). Con gli immobili corpi crivellati o maciullati ad esalare un’armonia imquietante nel contrasto con la musica leggera spianata a tutto volume. Qui, nello smartphone che doveva esser nero ma resta bianco per meglio assorbire il sangue e spargerlo ovunque in rete. Una forza ne azzera semplicemente un’altra, perché sono ammessi soltanti antieroi, esistono soltanto diverse gradazioni di “Male”.

Tutto ciò – già tantissimo, per la verità – avviene una volta interrotto il delicato mélo di educazione sentimentale e solitudine urbana che è anche, tra le tante altre cose, Lo chiamavano Jeeg Robot: il rapporto Enzo-Alessia, scevro da psicologismi mielati da rom-com, centrato sul reciproco transfert proiettivo di affetti, traumi, ricordi, visioni proibite e immaginario anime, con relativi costumi da cosplayer, è un film a sé, e meriterebbe una recensione a sé (citiamo solo la poetica immagine che ritorna del palloncino rosa che fugge via nel cielo, suggellando unione o perdita).

E sempre tutto ciò accade prima ancora che lo scontro decisivo tra il villain e il redivivo “Hiroshi Shiba” abbia inizio, riportando il film sull’asse dell’entertainment puro. Questo per ribadire la ricchezza di temi, figure e motivi sollevati da un’opera ibrida come Jeeg Robot, saccheggiabile da ogni lato e godibile in ogni parte, che non a caso trova molti e diversi alleati, grasse risate e pochi ottusi nemici nella sua avventura in sala. Anche qui, a livello distributivo, sta l’altro merito e la scommessa vinta: la coraggiosa rinuncia ad esaurirsi in un’etichetta pop dominante come il cinecomix, a un genere predefinito che prevarichi ed escluda gli altri. Per arrampicarsi su un terreno ancora poco battuto, praticamente inesplorato, privo di certezze e modelli in cui colllocarsi (se si eccettua l’ottimo Il ragazzo invisibile di Salvatores). Senza ancora indicare con precisione, al momento, quale sia l’orizzonte, la fine della corsa, quale cinema possano produrre e influenzare i supereroi sugli spalti di Roma-Lazio!

C’è per ora la volontà ridacchiante e provocatoria di scompigliare le carte del mercato e spiazzare giocando con le attese degli spettatori. Di aprire una breccia in quella polarizzazione rigida e iper-classificatoria che elargisce Captain America a chi vuole supereroi con poteri e Deadpool a chi vuole supereroi senza poteri (sempre e comunque americani tout court), Suburra a chi vuole Roma, corruzione e criminali, Chiamatemi Francesco a chi cerca Roma, corruzione e criminali impuniti, un Bova alle romanticherie, un Papaleo alla commedia, uno Zalone per sbellicarsi e un Ozpetek al dramma (quasi si distribuissero assessorati, invece di racconti). Qualche tempo fa, Roy Menarini dalle colonne di MyMovies auspicava dieci Suburra all’anno, per un nuovo, fedele pubblico neo-noir che si starebbe formando tra serie tv e prime visioni italiane sulla scia dell’opera di Sollima. Noi proponiamo dieci Jeeg Robot. D’acciaio o di gomma, non ci interessa. Il titolo è presto detto: Continuavano a chiamarlo Jeeg Robot.