San Miguel Primavera Sound 2012 – Giorno 3

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Facce stanche e barbe incolte rigorosamente spettinate allo specchio. La terza e ultima giornata di festival concede spazio, almeno nel pomeriggio, a volti nuovi e vecchie conoscenze del cantautorato folk (o alt-country che dir si voglia). Nel fresco dell’auditorium Joshua Tillman, esule batterista dei Fleet Foxes, veste i panni da santone e si trasforma in Father John Misty; accompagnato solo dalla sua chitarra e spoglio di qualsiasi altra strumentazione al seguito gioca coi testi di “Fear Fun” e si presta a simpatiche pose per i fotografi tra un brano e l’altro. Il pubblico apprezza il pellegrinaggio costante tra umorismo e conversazione interiore, ricetta con cui l’eremita dalla barba blu è riuscito a curare i malanni da cui era afflitto e che spesso accomunano gli animi nobili.

Nello stesso scenario il cartellone prevede poco più tardi le uscite di Michael Gira e Jeff Mangum (Neutral Milk Hotel) mentre Sharon Van Etten, fresca del successo ottenuto con “Tramp”, debutta sul main stage del Parc del Forum. Jeans e maglietta nera, sguardo spento e fiero come nella copertina dell’album, Sharon disegna atmosfere vocali ruvide ed eteree; l’esibizione, come del resto già il disco realizzato sotto l’occhio vigile di Aaron Dessner,  scivola silenziosamente nelle auto-confessioni fragili ed intimistiche che segnano una tappa importante del suo percorso artistico.

Intanto il ritmo incalza sulla spiaggia; Barcellona non sarà Brighton e all’orizzonte non si vedono nuvoloni, ma il festival volge al termine e lungo il mare si respira il legame ibrido tra il twee-pop ansimante di “Come On Over” e l’indie-pop grezzo di “Beachy Head”. Camice floreali, caschetti e occhiali scuri, i Veronica Falls non inventano nulla di nuovo, ma si dimostrano abili interpreti di un genere che suona perfetto nelle malinconiche serate estive.

Le atmosfere nostalgiche contagiano anche l’arena del San Miguel. I Kings Of Convenience entrano in scena con l’aspetto di chi si da appuntamento per suonare la chitarra tra una lezione e l’altra sulle scalinate dell’università; con accordi spensierati e voci sottili il duo norvegese ripercorre i freschi sentieri di “Riot On An Empty Street” e “Declaration Of Dependence”; con l’innesto di tre elementi sul palco nella parte finale l’andatura aumenta rapidamente e volge verso il funky elettrico e danzereccio dei Whitest Boy Alive: progetto parallelo di Erlend Oye. Da segnalare la presenza al basso di Davide Bertolini, reggiano di stanza a Bergen noto anche per aver prodotto “Le Mezze Stagioni” degli Ex-Otago.

L’estate è ormai alle porte. Succosi e maturi al punto giusto, i Beach House raccolgono i frutti della loro ultima fioritura seguita con cura negli orti della SubPop. “Bloom” non è solo un germoglio, ma la prosecuzione naturale del dream-pop squamoso e liquefatto di “Teen Dream”. La voce sbiadita emerge decisa dalla penombra del fondale e i colpi di chitarra accompagnano il bisbiglio ebbro e stonato del sintetizzatore.

Yo La Tengo, Neon Indian e Washed Out, la nottata va avanti, ma il tempo è scaduto e rimane  giusto un istante per osservare Hanni El Khatib mentre commette l’ultimo omicidio del garage-blues.

La scena del crimine è sequestrata e il tempio della musica è condannato a tacere fino alla prossima Primavera.

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Foto di Daniele Bianchi