Il Dio del Rock e la sua parrocchia

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L’altro giorno mentre ascoltavo il signor Claudio Trotta (Barley Arts) dialogare al Tgcom con un riverente Paolo Liguori, non ho potuto non domandarmi per quale motivo lo stessi facendo. La motivazione di facciata è ovviamente inerente allo scandalo legato al secondary ticketing esploso di recente grazie ad un servizio de “Le Iene” Trotta era lì per fare un po’ di luce  –, ma la realtà però è forse altra. Del resto, se penso all’ultima volta che ho acceso la televisione con l’intento di visualizzare un contenuto legato ad un artista musicale – intervista, performance, comparsata – dovrei riavvolgere il nastro ad inizio millennio.

Sebbene il mezzo televisivo ed i suoi contenuti, siano ormai in putrefazione da tempo, nell’utenza comune (matura) rimane ancora viva quella strisciante convinzione istituzionale de: “l’ha detto la televisione” – marchio d’indissolubile verità. Questo ovviamente vale anche per me: purtroppo i miei occhi innocenti hanno stazionato troppe volte sui canali Fininvest perché tutto si dissolva senza che lo psicanalista porti la conta dei danni. Questo però non accade per i cosiddetti “nativi digitali” – a patto che non si tratti di analizzare la cultura del “format” d’assalto per menti sfibrate dall’indottrinamento. Insomma, quello che negli eighties era un vago e speranzoso “Saranno Famosi” ora si è tramutato nel diktat: “Devi Esserci, ed avere anche il fattore X”. Stronzo.

Devi esserci. Devi.

Non so voi, però a me a volte capita di andare ai concerti e vedere riflesso quel “Devi” nel pubblico. Vedo molti concerti, spesso di nicchia (questo anche per colpa delle mie finanze) e come tutti voi tossici musicali vengo sommerso dalla smania altrui dell’esserci – fosse per me uscirei di casa solo per i Turbonegro, che poi non è vero ma rende bene il livello d’indolenza:

A: Vuoi non andare a vedere ancora i Radiohead? (Qui potete metterci la band che vi pare, anche i Rolling Stones)
B: Non me ne frega un cazzo dei Radiohead (O la band che vi pare)

Lo ammetto, a volte ci godo pure nel farlo, ed il sacrilegio si consuma al cospetto di manifestazioni epilettiche, paroloni, e nel caso della band di Yorke occhi a mezz’asta. Però, se ci pensate un attimo qualcosa nel processo è andato perso.

Ad inizio millennio svolazzavano articoli illuminati incentrati sulla perdita del concetto di “Idolo” in musica. Dapprima si è tentato di appioppare il tutto alla tecnologia, alla Rete, poi è arrivato Rolling Stone con le sue copertine a Berlusconi, e di recente addirittura a Renzi, lo scout, il presidente del consiglio (dei lupetti). Una deriva da sagrestia che forse spiega davvero i recenti accadimenti.

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Sempre nell’intervista trasmessa per “Le Iene” l’amministratore delegato di Live Nation ha dichiarato che il surplus di guadagno sul Secondary Marketing andrà ai Terremotati. Un gesto, che se veritiero, ci riempie di gioia: specie in un contesto smitizzato à la maniera di Lenin ma depredato di contenuti – ed in cui questi personaggi sono le vere Star. Allora è proprio vero che per la cultura di massa sono questi i riferimenti: aveva ragione Rolling Stone, confermando la tesi che vede una cultura giovanile portante (quella musicale per le generazioni pregresse a questa) sgretolarsi al cospetto di un connubio fra notorietà a tutti i costi/presenza militante e disillusione. Un concetto egoico che mette in mano poteri sovrannaturali all’appassionato della prima ora, percuotendo una cultura del NO – Hey! non è uno spot per il prossimo referendum – con gli strumenti buonisti propri di una comunione e liberazione (dal dolore).

Warhol qui è ovunque. Talvolta scudo ed in altre richiamo indiretto, sintomo d’ingenuità. Come dicevamo la gente vuole esserci, ma non solo: vuole una società basata su concetti redatti dalla propria tribù. L’arte, ed il mito legato ad essa è solo un grande telone su cui proiettare le proprie velleità. Un megafono per gridare al mondo che si stanno facendo cose, che si appartiene a quella o all’altra nicchia, che si è bravi, buoni e famosi.

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Così assistiamo a storpiature culturali, aggregazioni ad hoc nel nome di concetti altri qui ricalibrati per il contesto autoctono. E il caso dell’anthem: “Suonare-Divertirci-Amare” proposto tramite mezzo video dalla nuova schiera (poi neanche tanto) autonominatasi “Millini” (ancora tribù d’aggregazione sociale) – i ragazzi che presero parte al Rockin’ 1000, ne avrete sentito parlare. Un Crowdfunding in favore dei terremotati che pone, seppur nella sua natura benefica, il fianco a diverse considerazioni. Premesso che da un personale punto di vista, la carità non è tale se non anonima, mi sono chiesto, cosa abbia spinto questi ragazzi nel muoversi in ottica caritatevole – se sono in mille, ho pensato, con una cifra risibile a testa si poteva raggiungere un bel gruzzoletto no?

Qui non sono in discussione gli intenti, ma le modalità. 3500 € sono una discreta cifra, se raggiunta sarebbe sicuramente un traguardo, va dato atto, ma – spero ingenuamente – forse i ragazzi non hanno pensato che tutto questo potesse fungere da volano pubblicitario interno più che da aiuto reale? Tramutandosi in un effetto domino che potrebbe manifestarsi in svariati modi? Dall’ignorare l’operazione, alla critica. Beata Gioventù.

Anche se siamo tutti ben consci, e ci tengo a sottolinearlo, che non crediamo (non vogliamo crederci) sia questo l’intento primigenio dell’operazione, e lungi da noi fare allusioni: la situazione si presta all’analisi di cui sopra. Ovvero: La situazione è la nuova Rock Star. Il calendario (Le veline?! Mediaset Docet) e i simboli – il cuore con le mani che fa tanto Pato versione milanista rivolto agli spalti della sua Barbara Berlusconi –, i suoi strumenti.

Verrebbe da chiedere cosa sia il Rock a questo punto, ma per quello ci sono risposte.