Primavera Sound: Il giorno dei Radiohead

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3 Giugno 2016: 
Giornata strana oggi al Primavera Sound. I Radiohead sono arrivati in città, e un po’ tutto il clima del festival sembra orientato in quella direzione, anche se nessuno vorrebbe ammetterlo. Intanto, mentre dal Ray-Ban Stage Ben Watt degli Everything but the Girl dimostra il suo talento da compositore di ballate classicamente rock à la Neil Young (con l’ausilio alla chitarra di Bernard Butler degli Suede), ci prendiamo il tempo per farci un giretto dalle parti del Beach Club, una sorta di “spiaggia” ricreata quest’anno in appendice al festival, dove tra taverne del Bacardi, tavolini in ferro battuto e palme (vere), la gente campeggia allegramente sorseggiando Cuba Libre e ascoltando musica da party sullo sfondo di un paesaggio industriale degno dei migliori contrasti grafici di Stanley Donwood.

IMG_0243Ci si sposta poi in direzione dei palchi principali, per il set dei Titus Andronicus, che con il loro punk-rock in equilibrio tra paraculi ganci melodici e autenticità fanno il loro dovere, comunicando insieme al cantato ruvido alla Rancid o NOFX del loro barbutissimo leader i tre ingredienti essenziali che il punk-rock dovrebbe esprimere: immediatezza, rabbia, e, perché no, vibrazioni positive. Lo si vede dal sorriso stampato in faccia a più di uno dei presenti, dai pugni alzati sugli anthem più vendicatori, dai diversi crowd-surfing del pubblico. Insomma nonostante l’effetto straniante e un po’ anacronistico, questo lunghissimo album dei Titus Andronicus (The Most Lamentable Tragedy) dal vivo funziona egregiamente, tra i riferimenti agli Who – che già avevano illuminato i Green Day all’epoca di American Idiot –, e accelerazioni riesce nell’impresa di far vibrare qualcosa rimasto incastrato nei nostri cuori fin dal 1994 e forse non ancora risolto. Quel desiderio ancora stranamente imperioso e presente di ascoltare queste sonorità, quando suonate con autentica urgenza.

Un giro nell’area relax dove incontriamo uno straniato J Mascis che mangia giapponese, mentre dalla parte opposta della spianata prendono posto come un’armata di guerrigliere urbane le Savages, sullo stesso palco dove tra due ore suoneranno i Radiohead. Il pit è già strapieno, forse anche a causa quei furbetti che presumono così di accaparrarsi un posto di fronte a Thom Yorke, mentre la scritta sottopalco: “l’area verrà sgombrata dopo il concerto delle Savages, per essere successivamente riempita”, invita a lasciare qualsiasi speranza.

Ma come sono queste Savages dal vivo? Le parole che vengono in mente sono: rigorose, severe, austere, matematiche, istrioniche, folli. Basterebbe anche solo guardare negli occhi scuri e brillanti di fiamme la loro fisicissima/epilettica leader, o ascoltare il suo cantato a metà tra Siouxsie e Patti Smith mentre la sezione ritmica pompa linee degne dei Joy Division. Che sì, magari saranno anche derivative, ma questa cosa la sanno fare bene. La vocalist Jehnny Beth è un animale da palco come poche se ne vedono, provoca, spinge, salta, urla e si getta come se niente fosse dal palco due o tre volte, raggiungendo circa metà della platea nuotando sul pubblico con tanto di microfono, per poi arrampicarsi su una transenna al centro del parterre ed ergersi innalzando le mani verso il cielo, urlando sullo sfondo dei palazzi del forum come una dea trionfante.

I Beirut, sul palco opposto, riempiono lo spazio che resta prima della performance dei cinque di Oxford, ma già a metà della scaletta si nota un esodo sospetto, una corrente subacquea che sta cercando da tempo di assicurasi un posto di fronte all’Heineken Stage. Questa volta il pit riservato esiste, e così riusciamo ad accaparrarci, dopo una lunga fila a serpentone che attraversa l’intera area relax, un posto piuttosto vicino alla zona palco.

Ed è subito sera: i Radiohead al Parc del Fòrum

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Come spiegare un concerto del genere se non usando le abusate parole “concerto storico” e “imperdibile”? Difficile. Ma come dice Nina Simone nel frammento registrato che i Radiohead diffondono prima di salire sul palco dagli amplificatori:

“Puoi provare a descrivere certe cose, ma non puoi certo riuscire a spiegare certi sentimenti a parole… come fai a spiegare che cosa sia l’amore a chi non è mai stato innamorato? È la stessa cosa che mi capita col concetto di libertà. Te ne rendi conto semplicemente quando la provi. Mi è capitato un paio di volte sul palco di sentirmi davvero libera, ed è davvero qualcosa di indescrivibile. Ora ti dico che cosa significa per me la libertà: NESSUNA PAURA! Dico sul serio, NESSUNA paura.”

Non è un caso che il concerto incominci proprio così. Yorke sembra oggi completamente a suo agio nel ruolo di rocker da arena che il contesto di stasera gli richiede. Molti sanno quanto quel ruolo gli sia costato nel corso degli anni, non per niente ci ha anche scritto una canzone sopra, “How To Disappear Completely“, ai tempi dell’esaurimento successivo al tour di Ok Computer. Ma oggi non è tempo di scomparire, anzi, di esserci per davvero e per intero, il che significa anche portarsi dietro sul palco tutta la propria fragilità. Sì perché Yorke quel ruolo lo assume a suo modo, rendendo il concerto addirittura qualcosa di intimo. Avete capito bene: intimo. Questa è una della caratteristiche più sorprendenti e irraggiungibili di quello che sono i Radiohead oggi.

Basti, su tutti, il momento in cui la band pennella le prime pulsanti note di “Nude” per far calare sul pubblico una specie di coltre d’attesa, sotto la quale puoi sentire vibrare le persone accanto a te, una sorta di religiosa sospensione prima che Yorke pronunci: “Don’t get any/ big ideas” nel suo leggerissimo cantato di testa, e quando lo fa il pubblico canta sommessamente in modo da non sovrastare la sua voce.

La scaletta è qualcosa d’incommensurabile, una sequenza enorme per peso e qualità, come raramente è capitato di ascoltare negli ultimi anni. Credo che abbia lasciato addosso ai fan dei Radiohead radunati al Forum la stessa sensazione che può provare un tifoso di calcio nell’andare allo stadio la domenica del derby e vedere la propria squadra vincere dieci a zero: un mix perfetto di brani di Kid A (The National Anthem, una magistrale versione di Idioteque e di Everything in Its Right Place!), di numeri altissimi tratti da In Rainbows (Weird Fishes/Arpeggi, Nude, Bodysnatchers!) e di puntate nel passato prossimo di Hail To the Thief con le efficacissime There There e 2+2=5, sulla quale il pubblico e la band esplodono all’unisono: “you-have-not-been-paying-attention”… e se non sapete di cosa si tratta, significa che non avete prestato abbastanza attenzione, troppo presi a criticare eventuali scelte promozionali sempre immancabilmente in malafede, o svolte artistiche necessarie scambiate per pretenziosità.

Per i tifosi della squadra avversaria, o i tiepidi, ecco a voi i cinque gol che riducono al silenzio: Talk Show Host (che gente cresciuta negli anni Novanta ricorderà come colonna sonora del Romeo e Giulietta di Baz Luhrmann) Street Spirit (Fade Out), No Surprises, Karma Police, Paranoid Android. E prima di tutta questa meraviglia – e di due splendide versioni di Pyramid Song e Lotus Flower – compaiono i brani del nuovo album (i cinque iniziali) resi senza l’ausilio di basi o di orchestre d’archi, il che funziona molto bene ad asciugare e accentuare l’aggressività del singolo Burn The Witch, meno sulla successiva The Numbers, ma la scelta è in pieno condivisibile. Del resto, quando dopo The Numbers segue Karma Police, la continuità sonora è sorprendente: hai davanti una band che ha metabolizzato e sintetizzato, ormai anche all’interno dello stesso brano, tutte le sue derive, e sul palco può spaziare dall’elettronica di Idioteque a una ballata circolare come Street Spirit fino alla musica-contemporanea di Weird Fishes mantenendo pur sempre un’impressione di organicità e di compattezza, facendoti percepire il filo rosso che lega tutto il suo percorso.

Ed ora che si dovrebbe chiudere, il pubblico non ha proprio intenzione di lasciarli andare… Thom mima un po’ di stupore, chiede ai tecnici del palco di riaccendere la strumentazione, e poi in un vero e proprio fuori programma attaccano Creep, il singolo che è stato il primo successo commerciale della band, ma anche la maledizione che rischiava di farli finire, prima ancora di potersi esprimere pienamente, nella cerchia delle one-hit-wonders, le band note per un solo, unico, troppo ingombrante singolo. Le cose non andarono così, lo sappiamo bene, ma spinsero comunque Thom a nutrire un certo disagio nei confronti di quella canzone, e a volerla eseguire sempre poco (poco è un eufemismo) dal vivo. Così poterlo vedere oggi intonare quel brano, anche con una certa liberatoria piacevolezza, pienamente pacificato in quel ruolo di performer che l’occasione gli richiede, ha il senso di un’occasione, non volevo dirlo, storica.

Ad altri il compito di raccontare quello che ancora succederà questa notte al Primavera, dai The Last Shadow Puppets agli Animal Collective, fino alla carezza notturna dei Beach House, è inevitabile che tutto ora mi appaia un po’ meno, per così dire, essenziale.